La contesa
Carige, in crisi profonda anche l’ultima banca della prima Repubblica
Chissà se lo spagnolo Ramon
Quintana della Vigilanza Bce e la tedesca Elke Konig del Single
Resolution Board della Ue avrebbero
mai pensato di dover essere chiamati - come avvenne nella lunga notte
tra il 15 e il 16 novembre del 2017 - per gestire la
resolution, ovvero il fallimento, dell’italiana Banca Carige. Ore
drammatiche per un milione di correntisti dell’istituto
ligure e anche per le Autorità di Vigilanza italiane (Bankitalia e
Mef). Senza l’aumento di capitale da 560 milioni da realizzarsi
entro il 31 dicembre, Carige non aveva altra prospettiva che la
risoluzione. Il governo Gentiloni stava per rimettere il mandato,
in vista delle elezioni politiche del 4 marzo, e politicamente era
nei fatti impossibilitato ad agire con un decreto d’urgenza
come avvenuto per il salvataggio di quel che era rimasto delle banche
venete. Dopo 48 ore concitate, Carige riuscì - anche
grazie alla moral suasion delle istituzioni - a chiudere il consorzio
di garanzia e l’aumento di capitale andò in porto evitando
in extremis il default.
A pochi mesi di distanza dal drammatico salvataggio di ultima istanza, quelle ore di panico che avevano contagiato l’intero sistema bancario italiano - il default di una banca alla vigilia delle elezioni poteva avere conseguenze imprevedibili - sembrano non avere lasciato alcun ricordo nella mente dei grandi azionisti e amministratori di Carige, che da settimane hanno ripreso a litigare e a dare l’impressione di contendersi un “tesoro” invisibile a molti osservatori, a partire dalla Vigilanza Bce. Perché una piccola banca italiana, ancora convalescente dopo una crisi durata oltre un decennio, scatena una battaglia finanziaria che ha già messo in allerta la Bce e fatto scattare le indagini della Procura di Genova? Per provare a dare una risposta, bisogna partire dai bilanci. E poi risalire al contesto economico e politico di quella che, a giudizio di un banchiere informato dei fatti, resta ormai nel Nord Italia «l’ultima banca della Prima Repubblica, un coacervo di affari, lobbies e politica».
I numeri, dunque. Prima della fuga di liquidità del novembre 2017, oltre 1,5 miliardi ritirati dai conti correnti, Carige contava su circa un milione di clienti in Liguria, alta Toscana, Piemonte, Veneto e Roma. La raccolta si è poi stabilizzata ma la dipendenza dal mercato interbancario è aumentata mentre sono scesi i depositi dei clienti che, pur non chiudendo il conto, hanno talvolta ridotto le giacenze sotto il tetto garantito dei 100.000 euro. La crisi è evidente anche da alcuni particolari, di immagine più che di sostanza. Per fare cassa e plusvalenze, Carige è stata costretta a cedere la sede di Milano. E oggi è in subaffitto in un immobile che UniCredit ha affittato da Malacalza.
Il problema poi sono gli impieghi, ovvero i crediti alla clientela che da anni sono in continua caduta: dai 25,4 miliardi del 2010 sono scesi ai 17,7 miliardi del 2017. Le imprese più grandi o si finanziano sul mercato, se quotate, o ottengono credito a basso costo dalle grandi banche. A Carige resta lo small business e i crediti concessi negli anni dal vecchio padre padrone Giovanni Berneschi, condannato in Appello a 8 anni e sette mesi di pena, ai vari progetti di sviluppo immobiliare locale, spesso diventati Npl nei bilanci della banca, erogati per accontentare il mondo della politica locale. Come il progetto del villaggio tecnologico degli Erzelli, caro all’ex presidente della Regione Pd Claudio Burlando, che per Carige si è tradotto in 250 milioni di Npl. O i crediti concessi per il progetto Marina Genova-Aeroporto, anch’essi finiti tra i crediti dubbi come documentato dai verbali ispettivi di Bankitalia.
A chi interessano questi affari locali? Poco ai piccoli azionisti di Carige. Molto alla politica ligure che, da sempre, è stata il decisivo “tutor” nei confronti delle varie autorità romane per garantire la necessaria libertà di manovra alla spregiudicata gestione di Berneschi & friends. Riecheggiando quanto accadeva nel medioevo, due sono state le «signorie» che si sono spartite l’influenza politica su Carige: quella dei feudatari della riviera di Levante capitanati dall’ex senatore spezzino Luigi Grillo. E quella comandata dal “gran signore” della riviera di Ponente, l’ex ministro Claudio Scajola, forte anche per il conferimento a Carige della Cassa di Risparmio di Imperia (città di cui è appena diventato sindaco). Sia Grillo che Scajola sono stati protagonisti di primo piano dell’era berlusconiana di Forza Italia ma, da veri ex (?) democristiani, hanno sempre trovato un modo di convivere e di trovare accordi nei grandi affari locali in cui è stata coinvolta Carige: dai porti ai trasporti, fino alle grandi opere. Rapporti difficili da spiegare alla Vigilanza Bce, che forse non ha del tutto chiaro come sia stato possibile che - all’epoca in cui Tarcisio Bertone era cardinale di Genova - lo Ior guidato da Ettore Gotti Tedeschi, finanziere di origini piacentine da sempre considerato vicino all’Opus Dei, nel 2010 tentò di entrare nel capitale di Carige rilevando dalla Fondazione per 100 milioni parte dei diritti di opzione di un prestito convertibile che serviva per ricapitalizzare una Carige già in affanno. Niente di illecito, come documentato poi dalla Procura. Ma certamente testimonianza di quanto certi ambienti della finanza cattolica avessero a cuore le sorti di Carige, per motivi e interessi mai spiegati.
Questo coacervo di politica (vecchia e nuova) e di lobby affaristiche locali (e non solo) intravede ora l’opportunità di rientrare in gioco, facendo da sponda a qualche azionista o pilotando la banca verso un’aggregazione “amica”? Di certo ci proverà, tentando di recuperare lo spazio perso durante la fase della Carige targata Malacalza. Per convinzione, e forse anche per scarsa diplomazia, l’imprenditore ligure ha certamente il merito, oltre a quello di aver investito centinaia di milioni, di aver fatto da argine alle intromissioni della politica. Ma non ha impresso alcuna svolta alla banca, tuttora in crisi, e ha pregiudicato i rapporti con la Vigilanza Bce.
Azionista con il 20,6% di Carige, Malacalza ha vissuto il suo ruolo da primo socio pensando anche di essere l’unico. «In fin dei conti, Malacalza è il padrone, diciamo, di questa banca, non è che si può discutere» ha commentato in un’intervista al Sole24Ore del 26 giugno, forse con qualche ingenuità, l’ex presidente di Carige Giuseppe Tesauro. In pochi anni il “padrone” di Carige ha praticamente litigato con chiunque avesse ruoli di gestione. I primi a farne le spese sono stati l’ex presidente Cesare Castelbarco e l’ex amministratore delegato Piero Montani che, chiamati da Bankitalia a risanare l’istituto dopo la gestione Berneschi, sono stati oggetto di un’azione di responsabilità dalla banca guidata da Malacalza. Stessa sorte per il fondo di private equity Apollo in un contenzioso che coinvolge la banca e le ex controllate assicurative. All’epoca dello scontro con Castelbarco-Montani, il referente di Malacalza in cda era il banchiere Beniamino Anselmi - nominato presidente del comitato esecutivo - che suggerì come amministratore delegato Guido Bastianini. Pochi mesi ed entrambi sono stati rimossi, per disaccordi con il “padrone” dell’istituto. A corto di manager, Malacalza chiese aiuto all’ex ceo di UniCredit Federico Ghizzoni che gli segnalò Paolo Fiorentino. Idillio durato pochi mesi perchè, sempre secondo l’ex presidente Tesauro, scelto da Malacalza, l’attuale ad «è bravo ma è un po’ spendaccione e un po’, come posso dire… svelto, ecco».
Se con ogni evidenza tra Fiorentino e Malacalza la rottura è totale, l’incerto futuro della banca è appeso all’esito dell’assemblea del 20 settembre per il rinnovo del cda dove, con ogni probabilità, si scontreranno la lista Malacalza e quella dell’inedito asse in via di formazione tra il finanziere Raffaele Mincione e il petroliere Gabriele Volpi. «Nelle banche si sono visti azionisti di migliore reputazione ma, data la situazione di Carige, inutile pensare che a Genova arrivi un Warren Buffett», è il commento di un banchiere d’affari che chiede l’anonimato.
Chiunque vinca la battaglia, non potrà dire: «abbiamo una banca». Ma sarà costretto a percorrere in fretta lo stretto sentiero indicato dalla Vigilanza Bce per il turnaround che, anche a causa dei mesi di scontro in cda, si è interrotto. Il ripristino del total capital ratio sopra i livelli minimi chiesti da Bce non è avvenuto attraverso il lancio del bond subordinato perchè il mercato lo avrebbe sottoscritto a condizioni tali da minare la reputazione della banca sull’obbligazionario. E difficilmente potrà essere emesso entro fine anno, soprattutto dopo il downgrade dell’agenzia Moody’s che è arrivata a paventare un rischio «resolution» per Carige. Rischio che per ora non è stato indicato da Bce. Ma molte nuvole si addenseranno in autunno sulla Genova bancaria. Il 2 novembre sarà reso noto l’esito degli stress test e Carige è inevitabilmente tra le banche a rischio. L’esito del test confluirà poi nelle richieste di capitale individuale (Srep) di Bce per il 2019, che tiene conto anche della governance degli istituti. Forse anche ricordando il rischio default corso nel novembre dell’anno scorso, a Roma si sta valutando un piano B di emergenza che potrebbe coinvolgere il braccio volontario del fondo interbancario di garanzia. Ipotesi per ora puramente teorica, ma un «backstop» va preparato in anticipo anche se poi non verrà mai utilizzato. La barca per ora sta a galla ma non è certo un segnale di ottimismo quello che arriva dai consiglieri di amministrazione che, educatamente, si mettono in fila per dimettersi al ritmo di uno al giorno. Ramon Quintana ed Elke Konig attendono di nuovo Carige al varco dell’autunno.
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