mercoledì 29 marzo 2017

Sapir: Lex Monetae e Diritto Europeo

Henry Tougha

Sapir: Lex Monetae e Diritto Europeo

http://vocidallestero.it/2017/03/23/sapir-lex-monetae-e-diritto-europeo/

Un Jacques Sapir insolitamente sintetico e tagliente accusa i sedicenti difensori dell’Europa, i quali negando che l’uscita dall’euro sarebbe regolata dalla Lex Monetae mostrano di non conoscere le leggi della stessa Unione europea e di basarsi piuttosto sulle affermazioni della discutibile agenzia di rating Standard & Poor’s.  La Lex Monetae è chiaramente inscritta nei trattati europei: è stata invocata al momento dell’entrata nell’eurozona, e sarà ovviamente invocata di nuovo al momento dell’uscita…

di Jacques Sapir, 19 marzo 2017

Tutti conosciamo l’argomento che coloro che si oppongono alla dissoluzione dell’euro o all’uscita dall’euro contestano a chi è invece convinto che tale uscita sia oggi l’unica soluzione possibile per l’economia francese: l’argomento del debito. Secondo questi critici i debiti della Francia si moltiplicherebbero semplicemente per il deprezzamento del nuovo franco francese. Essi mostrano di non credere a quel principio della legge internazionale definito Lex Monetae, o legge monetaria, che indica precisamente che tutto il debito emesso secondo la legge di un paese può essere ridenominato in una nuova valuta, se quel paese decide di cambiare valuta. Un ex Presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy tanto per fare il nome, ha pronunciato un discorso apocalittico su questa questione. Anche l’Institut Montaigne ha ripreso questo tema e ha dimostrato di non credere all’esistenza della Lex Monetae.

Lex Monetae e diritto europeo
Eppure questa “legge”, alla quale si faceva riferimento in  diritto internazionale negli anni ’20-’30 del Novecento per regolare il problema dei debiti degli stati che si sarebbero formati sui resti del decaduto Impero Austro-Ungarico, è esplicitamente menzionata dal diritto dell’Unione europea. Del resto è proprio in virtù di questo principio del diritto internazionale che il debito pubblico francese emesso in franchi fu convertito in euro nel 1999.
Il riferimento si trova nel regolamento (CE) n° 1103/97 del Consiglio del 17 giugno 1997, relativo ad alcune disposizioni per l’introduzione dell’euro. Questo regolamento è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale [1] e può essere consultato in internet [2]. Il riferimento in particolare appare al paragrafo 8 ed è riportato qui di seguito:
“(8) considerando che l’introduzione dell’euro costituisce una modifica della legge monetaria di ciascuno Stato membro partecipante; che il riconoscimento della legge monetaria di uno Stato è un principio universalmente accettato; che la conferma esplicita del principio di continuità deve portare al riconoscimento della continuità dei contratti e degli altri strumenti giuridici nell’ordinamento giuridico dei paesi terzi;”
Be’, diciamo che è abbastanza stupido pretendere di difendere un’istituzione senza conoscerne le leggi. Perché, e questo è un punto importante, è detto proprio che “la conferma esplicita del principio di continuità deve portare al riconoscimento della continuità dei contratti e degli altri strumenti giuridici nell’ordinamento giuridico dei paesi terzi“. In altre parole, se il governo francese decide di ritornare al franco ad un tasso di conversione di 1 a 1 con l’euro, ha il diritto di farlo per quanto riguarda tutti gli strumenti giuridici e i contratti emessi all’interno dell’ordinamento giuridico francese. Ma è quantomeno strano che gli “esperti” europei ignorino le loro stesse leggi. È un po’ come se il Presidente della Repubblica [francese] dicesse che, secondo la Costituzione, il Presidente è eletto dal Parlamento…

Lex Monetae e agenzie di rating
Si può verificare inoltre come la citazione di una certa agenzia di rating, che fa da fondamento alle affermazioni catastrofiste dell’Institut Montaigne [3], venga direttamente invalidata dal sopra menzionato regolamento europeo: “Non c’è alcuna ambiguità (…) Se un emittente non adempie ai termini del contratto con i suoi creditori, ivi compresa la valuta in cui sono effettuati i pagamenti, dichiareremmo la situazione di default“, così ha detto recentemente Moritz Kraemer, direttore dei rating sovrani di Standard & Poor’s. Potremmo anche ignorare le agenzie di rating, ma resta il fatto che le loro opinioni sul rischio di credito (cioè di default) sono indispensabili per una buona gestione del rischio da parte degli investitori istituzionali (compagnie di assicurazione, fondi pensione e banche).

Se l’agenzia Standard & Poor’s decidesse di dichiarare il “default” della Francia, non sarebbe ovviamente seguita dalle altre agenzie e, soprattutto, non riuscirebbe a trovare nessun tribunale di livello internazionale disposto a convalidare la sua decisione. Perché i giuristi sanno bene che quanto accaduto nel 1999 si ripeterebbe, in virtù del principio giuridico del precedente. Il governo francese potrebbe anche citare in giudizio Standard & Poor’s per manipolazione del mercato del debito.

Combattere il “Progetto Paura”
La bellezza della Lex Monetae sta nel fatto che il debito pubblico emesso sotto diritto francese (che corrisponde al 97 percento del totale di questo debito) deve essere rimborsato nella moneta avente corso legale in Francia. Se la Francia decide che questa moneta è l’euro, il debito viene rimborsato in euro al tasso di conversione deciso dalla Francia. Se la Francia decide invece che la moneta avente corso legale sul suo territorio è (nuovamente) il franco, vale la stessa cosa. Detto altrimenti, i circa 1649 miliardi di euro di debito francese negoziabile [4] si trasformerebbero in 1649 miliardi di franchi.
Per quanto riguarda il debito privato delle famiglie e delle imprese francesi, se questo è stato emesso secondo il diritto francese, non cambia nulla. Il lavoro di Cédric Durand e Sébastien Villemont, pubblicato dall’OFCE (Osservatorio Francese per le Congiunture Economiche) e che uscirà tra qualche mese su una rivista internazionale, stabilisce con precisione le conseguenze dell’uscita dall’euro [5] e mostra che le imprese e le famiglie uscirebbero vincenti da questa situazione.

È quindi necessario capire che molti di coloro che parlano su questo tema, lo fanno esclusivamente per alimentare i timori e le paure dei francesi. Come nei mesi precedenti al referendum sulla Brexit, ci troviamo di fronte a un “Progetto Paura”. Progetto sconfitto col voto del giugno 2016. Bisogna sperare che anche gli elettori francesi sappiano opporvisi, con la ferma sicurezza di chi conosce i propri diritti.

[1] Journal Officiel n° L 162, 19/06/1997 p. 0001 – 0003
[2] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/FR/TXT/?uri=celex:31997R1103
[3] Chaney E., «A propos du monde imaginaire de ceux qui prônent une sortie de l’euro», Institut Montaigne, 02 marzo 2017
[4] http://www.aft.gouv.fr/rubriques/encours-detaille-de-la-dette-negociable_159.html
[5] http://www.ofce.sciences-po.fr/blog/balance-sheets-effects-of-a-euro-break-up/

lunedì 20 marzo 2017

Al Ragioniere Generale dello Stato, Dott.Daniele Franco

Il ragioniere generale dello Stato, Dott. Daniele Franco
 
 
Al Ragioniere Generale dello Stato Dott. Daniele Franco
e p.c. Ispettore Generale Capo dott. Gianfranco Tanzi
e p.c. On. Alessio Villarosa

12 marzo 2017

Egregio Ragioniere,
il 23 gennaio c.a. l'ispettore capo della vigilanza della Banca d'Italia
Carmelo Barbagallo così rispondeva alla domanda posta in
Commissioni Finanze riunite della Camera e Senato (vedere allegato per testo completo):

(...) "Circa la possibile introduzione di una nuova imposta sulla creazione di depositi (che rappresentano la quasi totalità del denaro bancario), è probabile che i maggiori costi determinati dall’imposta, pur se formalmente in capo al sistema bancario, sarebbero comunque traslati sui clienti delle banche, per esempio sui costi di apertura di conto corrente. (...)
Poiché devo tenere a breve un corso di contabilità forense sulla creazione di denaro, vorrei che mi confermaste, o smentiste, quanto segue:
A - La creazione di denaro e depositi in euro da parte delle banche commerciali non è attualmente tassata;

B - Per poterla tassare, occorrerebbe una nuova imposta;
ovvero che:
C - La creazione di denaro non costituisce un profitto per chi lo crea, né una fonte di reddito (novella ricchezza) di per sé, quindi è esentasse;
oppure:
D - Siamo/non siamo al corrente del fatto che le banche creino denaro che, dal 1971, non necessita di contropartita, essendo "fiat".

La ringrazio per la collaborazione e non esiterò a citare la Vostra pregiata risposta che spero di ottenere al più presto, ringraziandoVi anzitempo per la disponibilità.

Cordiali saluti,
Marco SABA
presidente IASSEM
Istituto di Alti Studi sulla Sovranità Economica e Monetaria

martedì 7 marzo 2017

È possibile pignorare in toto lo stipendio dell'AD della banca

Amministratore - Cassazione Civile: lo stipendio dell’amministratore societario è totalmente pignorabile

06 marzo 2017 -
Amministratore - Cassazione Civile: lo stipendio dell’amministratore societario è totalmente pignorabile
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che lo stipendio dell’amministratore societario può essere pignorato nella sua interezza e non fino ad un quinto come previsto dal Codice di Procedura Civile, all’Articolo 545 comma 4: “tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo stato, alle province ed ai comuni, ed in egual misura per ogni altro credito.”.
La sentenza è di notevole interesse in quanto ha cercato di arrivare ad una soluzione riguardo al contrasto giurisprudenziale sul rapporto tra società ed amministratore.

Il fatto

La controversia, nata a seguito dell’espropriazione presso terzi intentata da una banca contro il suo debitore, nella sentenza di primo grado vedeva l’assegnazione all’istituto procedente della totale somma accantonata dai terzi a titolo di emolumenti per l’attività. Il debitore era infatti amministratore di una delle società terze pignorate e membro del consiglio di amministrazione dell’altra.
Il debitore si opponeva all’ordinanza di assegnazione deducendo che vi era stata una diversa qualificazione della propria attività, secondo lui riconducibile all’ambito di applicazione dell’Articolo 409 numero 3 del Codice di Procedura Civile, e che quindi vi era una limitazione alla pignorabilità (solo fino ad un quinto).
 Il tribunale accoglieva la sua opposizione, qualificando l’attività lavorativa del debitore come lavoro parasubordinato e dunque limitava ad un quinto l’assegnazione di quanto i terzi pignorati avevano accantonato.
La banca creditrice ha proposto ricorso in cassazione per alcuni motivi. Quelli di interesse sono i seguenti: il giudice ha omesso di accertare in modo concreto il grado di subordinazione del soggetto debitore in quanto egli svolgeva lo stesso ruolo di amministratore presso diversi enti; inoltre, dandosi atto del contrasto giurisprudenziale in tema di identificabilità dell’attività parasubordinata nella figura dell’amministratore, si chiede di riconoscere e applicare la teoria che esclude il rapporto parasubordinato, in quanto non vi sono riscontrabili le caratteristiche della continuità e della coordinazione.

Dottrina e giurisprudenza a confronto

La dottrina a riguardo identifica due principali orientamenti: il primo, cosiddetto contrattualista, individua la presenza di un vero e proprio contratto che lega l’amministratore e la società, che però sono autonomi centri d’interesse; il secondo, cosiddetto organico, configura solo un’immedesimazione dell’organo nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilità di un regolamento negoziale interno.
L’orientamento contrattualistico apre all’ipotesi di un rapporto parasubordinato tra i due soggetti distinti, mentre quello organico lo esclude.
La giurisprudenza ha parimenti evidenziato due principali orientamenti, discendenti da quelli dottrinali. Un primo orientamento esclude l’individuazione di un rapporto tra i due distinti poli d’interesse rappresentati dalla figura dell’amministratore e da quella della società, dato che nella società per azioni si attribuisce all’amministratore rappresentante le caratteristiche di organo. Altro orientamento, invece, ritiene che il rapporto tra amministratore e società per azioni presenti i caratteri della continuità e del coordinamento necessari per affermare la competenza della materia al giudice del lavoro.
Una svolta a questo dibattito è avvenuta con una sentenza degli anni ‘90 secondo cui la controversia nella quale l’amministratore di una società per azioni chieda la condanna della società al pagamento di una somma dovuta per effetto dell’attività di esercizio delle funzioni gestorie è soggetta al rito del lavoro. Nonostante ciò negli anni non è stato risolto il contrasto giurisprudenziale.
Dottrina e giurisprudenza concordano sul fatto che il coordinamento, presupposto dall’Articolo 409 sopra citato a cui fa capo questo orientamento, è di tipo verticale e quindi soggetto ad ingerenze e direttive altrui; ma ciò non è individuabile rispetto all’attività di amministratore societario. Egli, infatti, è l’unico gestore dell’impresa, con il solo limite di quegli atti che non rientrano nell’oggetto sociale. Dunque, l’amministratore unico di una società per azioni è legato da un rapporto di tipo societario, che non è compreso tra quelli previsti dall’Articolo 409.

Decisione

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha accolto i motivi di ricorso sopra menzionati (il terzo e quarto), cassando la sentenza impugnata e rigettando l’opposizione proposta dal debitore. 
In sostanza, secondo la Cassazione, la sentenza impugnata ha errato nell’affermare la limitata pignorabilità dei crediti e da ciò ne deriva che i compensi spettanti agli amministratori per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili nella loro totalità.

(Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza del 20 gennaio 2017, n. 1545)