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lunedì 25 ottobre 2021
I Sicari dell'Economia: Daniele Franco, il ministro paracadutato da Bankitalia
Daniele Franco, l’uomo che voleva passare inosservato
di
Nicola Mirenzi
Daniele Franco (68 anni) (Angelo Carconi / Ansa)
È il ministro dell’Economia ai tempi
del Pnrr. Alcuni addirittura lo vedrebbero a Palazzo Chigi con Draghi al
Quirinale. Eppure se ne sa poco o nulla. Perché? Abbiamo indagato
5 minuti di lettura
Fuori dai palazzi, nessuno lo conosce. Eppure, nel governo,
c’è chi pensa che, se Draghi fosse eletto a capo dello Stato, il suo
successore ideale a Palazzo Chigi sarebbe Daniele Franco. L’attuale
ministro dell’Economia e delle finanze (questo credono i suoi
sostenitori) sarebbe la garanzia che il lavoro fatto finora
continuerebbe nella stessa direzione. La prosecuzione del draghismo con
altri mezzi. Per di più, sotto la vigilanza dello stesso Draghi al
Quirinale. L’inconveniente è che, dopo otto mesi da ministro, la
direzione generale della Banca d’Italia, sei anni a capo della
Ragioneria dello Stato, Franco, 68 anni, ha un curriculum impeccabile ma
nessun profilo politico.
Pochi sanno cosa pensi quest’uomo di cui non si registra una
dichiarazione che abbia fatto discutere, una parola fuori misura, una
smorfia traditrice di un’approvazione o di una stizza, nulla che sporga
dalla sua immagine equilibrata e severa di servitore dello Stato. Anche
gli ex compagni di classe del liceo Galileo Galilei di Belluno, sezione
A, faticano a individuarne un segno particolare, un connotato decisivo.
«Daniele», racconta Domenico Bisinella, che oggi fa
l’ingegnere, «non era lo studente più brillante del corso, ma nemmeno un
disastro, o un ragazzo irrequieto, o un campione dell’umorismo. Non
aveva nulla che lo facesse notare in mezzo agli altri». Passare
inosservato è una qualità essenziale del (daniele)franchismo, dottrina
del lavoro che rifugge il clamore, sebbene produca, a volte, effetti
clamorosi. Indimenticabile la stagione dello Spread, iniziata con
lettera della Banca centrale Europea all’allora presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. La lettera, firmata da Jean Claude Trichet e Mario Draghi a Francoforte, fu preparata, a Roma, da Franco. La storia è poco nota, anche se Renato Brunetta l’ha raccontata in un libro, Berlusconi deve cadere.
Con Mario Draghi(Getty Images)Brunetta era ministro della
Pubblica amministrazione e Franco direttore centrale dell’Area ricerca
della Banca d’Italia. Brunetta apprese che c’era una lettera tremenda in
arrivo dall’Europa e si precipitò a Palazzo Chigi per informare
Berlusconi del pericolo. Berlusconi gli chiese di aspettare, perché era
rapito da un filmato che Altero Matteoli aveva preparato sul Ponte sullo
Stretto. Ma quando lo fece parlare, e capì il rischio, chiamò
immediatamente Mario Draghi. Il quale confermò l’esistenza della lettera
e disse che a lavorarci su, alla Banca d’Italia, era Daniele Franco.
«Lo chiami», disse a Brunetta, che era accanto a Berlusconi. E, meno di
un’ora dopo, Franco era nell’ufficio del ministro, «con delle carte in
inglese in mano». Era la bozza della lettera che sarebbe stata inviata
il 5 agosto del 2011. E inizia così: “Strettamente confidenziale”. Oggi
Franco, Brunetta e Draghi siedono insieme in un governo che ha la
missione di gestire i fondi in arrivo dall’Unione europea, attraverso il
Pnnr. Dettaglio che i maliziosi sottolineano per alimentare le teorie
delle manovre internazionali o buttar lì il sospetto. Indubitabile che a
differenza di parecchi suoi predecessori al ministero dell’Economia,
Franco si trovi in una situazione eccezionale: anziché risparmiare,
tagliare, limare, dovrà spendere, spendere e ancora spendere. Situazione
paradossale per uno che ha dedicato buona parte della vita a far
tornare i conti. Soprattutto, sottraendo.
Il posto in banca
Entrato a ventisette anni nel Servizio studi di Banca d’Italia, dopo
un master a York, Franco costruisce nella banca centrale il rapporto con
Draghi quando Draghi ne divenne il Governatore. Specializzato in
finanza pubblica, conosce alla perfezione la materia pensionistica e i
guai del debito italiano, questioni che declina in vista di un fine
preciso: l’equilibrio di bilancio. «Quando Franco è diventato Ragioniere
dello Stato», racconta Natale D’Amico, giudice della
Corte dei Conti, «le previsioni dell’istituto sono diventate
estremamente attendibili. Prima di Franco, la forbice delle stime
oscillava spesso di qualche punto, mentre, sotto la sua direzione, gli
scostamenti si sono ridotti agli zero virgola». Una precisione che ha
pesato, politicamente. La Finanziaria del 2014, scritta dal governo di
Matteo Renzi, e che incluse il bonus bebè, ebbe la bollinatura della
Ragioneria dello Stato una settimana dopo l’approvazione del governo.
Franco contestò le previsioni, indicò le mancate coperture, costrinse il
governo a correggere il testo. Sotto Gentiloni, il Senato dovette
rivotare un provvedimento poiché Franco ritenne che mancassero le
coperture. Gli attacchi più feroci, però, li ha ricevuti dal Movimento 5
Stelle, durante il governo gialloverde, a causa del reddito di
cittadinanza. «Alzai un argine intorno a Franco e a tutta la struttura
del ministero», racconta al Venerdì l’ex ministro dell’Economia
di quel governo, Giovanni Tria. «Ritenevo vergognosi gli attacchi che
gli rivolse il portavoce del presidente Giuseppe Conte».
Giovanni Tria (Pierpaolo Scavuzzo / Agf)Rocco Casalino aveva detto in un messaggio audio, su
WhatsApp, che «...se, all’ultimo ci dicono che i soldi per il reddito
non li hanno trovati, nel Movimento 5 Stelle è pronta una mega vendetta.
Nel 2019, ci concentreremo soltanto a far fuori quei pezzi di merda del
Mef!». Daniele Franco era in cima all’elenco. Eppure, rimase
imperturbabile nella bufera. Mentre Tria intervenne in difesa. «Dissi al
presidente Conte», racconta, «che doveva prendere dei provvedimenti,
perché quanto successo era intollerabile. Conte mi rispose: “Giovanni,
ma Casalino è la vittima di questa storia: è sua la privacy che è stata
violata”...».
Sposato, un figlio maschio e
una femmina, padre impiegato del catasto, amante della montagna e dello
sci di fondo, una passione per la storia, talvolta anche per le visite
archeologiche: difficile sapere di più della sua vita privata, custodita
dietro quattro strati di riservatezza. Carattere schivo, indole di uomo
di montagna, etica alto burocratica, amici che sembrano scelti sulla
base del fatto che non riveleranno mai nulla di lui. Chi è riuscito a
trascinarlo in un salotto romano ha notato che neanche davanti a una
bottiglia di vino è uscito dalla parte del funzionario dello Stato. La
severità che i 5 Stelle credevano fosse diretta contro di loro è in
realtà l’abito dentro cui Franco si è abbottonato. Al punto che, per
trovare una spettinatura, bisogna tornare al tempo in cui, da studente,
faceva volontariato durante le vacanze estive. «Andammo a Badia Polesine
a costruire una casa di riposo per anziani» racconta Michele Reolon.
«Avevamo tutti un sacco a pelo per la notte, tranne lui, che, per non
aver freddo, dormì in mezzo a due materassi: un materasso come
giaciglio, e l’altro come lenzuolo».
Il professor Toni Negri
Franco è nato a Trichiana, un tempo comune della provincia di
Belluno, oggi frazione di Borgo Valbelluna. Ha studiato Scienze
politiche a Padova, quando in facoltà insegnava Toni Negri che l’aveva
resa l’accademia dell’Autonomia operaia, teoria e pratica della
sollevazione. Ogni giorno, le camionette della polizia erano fisse in
piazza Garibaldi. C’erano manifestazioni, scontri. Daniele Franco
frequentava gli Universitari Costruttori, un’organizzazione di volontari
fondata da padre Mario Ciman, un gesuita. (L’incontro con i gesuiti è
un altro tratto che Franco ha in comune con Draghi). E, con loro,
partecipò alla ricostruzione del Friuli dopo il terremoto.
Badia Polesine, estate 1970: un gruppo di ragazzi costruisce una casa di riposo: Franco è quello cerchiato al centro; in alto a sinistra, il suo amico Michele Reolon
Da quando è ministro, non ha rilasciato nessuna intervista. In una delle
poche concesse nella sua vita, quella a Enrico Cisnetto su War Room,
parla di un atteggiamento che gli è proprio, «l’umiltà intellettuale».
Il suo dramma è che, oggi, è costretto anche a uscire dall’ombra. Nelle
conferenze stampa se la cava dirottando ogni questione dal terreno della
politica a quello della tecnica amministrativa. Dove c’è il rischio del
conflitto, impone subito la no fly zone della scienza delle finanze.
Per l’incubo di dir qualcosa che possa farlo finire nella mischia,
strattonato dalla destra, oppure dalla sinistra, premedita ogni parola e
la consegna ai cronisti leggendola diligentemente dai suoi fogli
d’appunti. Appena un briciolo d’immediatezza rischia di farsi largo
nell’argomentazione – un commento, una battuta una considerazione a
braccio – torna immediatamente dietro lo scudo della rassicurante,
familiare, pila di carte.
Il pensiero economico di
Franco non ha la rotondità di una filosofia. Il suo contributo è
piuttosto circostanziato, pratico. Quando Draghi ha deciso le nomine
delle partecipate pubbliche non era d’accordo, in particolare sulla
sostituzione di Fabrizio Palermo a Cassa depositi e prestiti. Eppure,
dicono che a Palazzo Chigi c’è chi lo chiama Alexa, dal nome
dell’assistente virtuale di Amazon. «Alexa fammi questo decreto». «Alexa
fammi questa nomina». È in sintesi il cuore del rapporto tra lui e
Draghi, secondo le cattiverie, di cui Franco – ed ecco infine spuntare
un sentimento – soffre. Forse anche per questo coronerebbe più
volentieri la sua carriera alla presidenza della Banca d’Italia. Ma, se
gli chiedessero davvero di fare un altro passo avanti nel governo,
risponderebbe certo come impone lo spirito di servizio. «Sono a vostra
disposizione, Signori».
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