Fallimento
Novembre 2012
L’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza delle banche alla luce della riforma della legge fallimentare
Emma Sabatelli, Professore Associato di Diritto Fallimentare nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
Estremi per la citazione:
E. Sabatelli, L’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza delle banche alla luce della riforma della legge fallimentare, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 27, 2012
ISSN: 2279–9737
Rivista di Diritto Bancario
Rivista di Diritto Bancario
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Con alcune modifiche il testo riproduce il commento all’art.
182 Tub destinato alla pubblicazione nel Commentario al Testo Unico
bancario, a cura del prof. C. Costa.
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Sommario: 1. Il coordinamento fra il Testo Unico
bancario e la riformata legge fallimentare. – 2. I presupposti
soggettivi dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza. – 3.
L’insolvenza delle banche. – 4. I soggetti legittimati a richiedere
l’accertamento giudiziale dell’insolvenza. – 5. Segue. L’iniziativa del
pubblico ministero e i poteri officiosi del Tribunale. – 6. Il
procedimento. – 7. Il rinvio all’art. 203 l. fall.
1. Il coordinamento fra il Testo Unico bancario e la riformata legge fallimentare
L’art. 82 enuncia le regole per l’accertamento giudiziale dello stato
di insolvenza delle banche, tanto nel caso in cui esso preceda, quanto
nel caso in cui segua il provvedimento di liquidazione coatta
amministrativa; inoltre, mediante il rinvio all’art. 203 l. fall.,
contenuto nell’ultimo comma, precisa che all’accertamento giudiziale
consegue anche la possibilità di ricostruire il patrimonio attivo della
banca insolvente attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie
fallimentari. La formulazione della norma è rimasta quella
originariamente dettata nel Testo Unico bancario e, dal momento che
parimenti invariate sono restate le contraddittorie disposizioni di
raccordo fra normativa speciale e legge fallimentare in materia di
liquidazione coatta amministrativa, rispettivamente contenute nell’art.
80, 6° comma, Tub, e nell’art. 194 l. fall., devono tuttora reputarsi
sussistenti gli interrogativi concernenti il problematico coordinamento
fra la disciplina dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza contenuta
nella legge fallimentare e quella dettata dalla norma in commento.
La prima fra le disposizioni richiamate, dopo aver enunciato il
criterio della prevalenza delle regole contenute nel Testo Unico sulla
normativa di carattere generale, chiarisce che le disposizioni della
legge fallimentare si applicano – previa valutazione di compatibilità –
soltanto “per quanto non espressamente previsto” dal Testo Unico
bancario; l’art. 194 l. fall, invece, pur riconoscendo anche esso nel
primo comma che, in via di principio, le leggi speciali prevalgono sulla
disciplina della liquidazione coatta amministrativa dettata dalla legge
fallimentare, nel secondo comma, con un ribaltamento di prospettiva,
elenca alcune norme della legge fallimentare prevalenti sulle
corrispondenti disposizioni delle leggi speciali, le quali sono,
pertanto, dichiarate abrogate nella misura in cui risultano
incompatibili con le prime. Fra tali disposizioni vi sono appunto gli
artt. 195 (Accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa) e 202 l. fall. (Accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza), che regolano le stesse fattispecie contemplate dall’art. 82, 1° e 2° comma, Tub.
Il problema del coordinamento fra il diritto fallimentare ed la
disciplina speciale delle crisi delle imprese bancarie è, dunque,
questione non nuova, che in passato ha visto la dottrina dividersi fra
gli assertori della priorità della legge speciale – anche di quella
contenuta nella previgente legge bancaria, ma il principio è stato
affermato con maggior rigore con riguardo alle regole successivamente
introdotte dal Testo Unico – in ragione “della maggiore completezza
esibita dalla disciplina bancaria della liquidazione coatta rispetto
alla ben più sommaria articolazione che dell’istituto offre la legge del
’42” e coloro per i quali, invece,il contrasto fra le normative sarebbe
stato risolto mediante la recezione nella legge speciale dei principi
contenuti nella abrogata legge fallimentare1.
Attualmente, però, la questione deve essere riconsiderata alla luce
della riforma del diritto fallimentare, che ha conferito ad esso la
qualità di jus superveniens rispetto alla disciplina
delle crisi dell’impresa bancaria contenuta nel Testo Unico bancario;
tale circostanza impone che – vuoi in ragione delle contrastanti
indicazioni contenute nell’art. 80, 6° comma, Tub e nell’art. 194,
ultimo comma, l. fall., vuoi per il principio della prevalenza della
legge successiva su quella precedentemente emanata – nell’esaminare
l’art. 82 si debba innanzitutto appurare quale sia la disciplina
applicabile al caso concreto, qualora vi siano discrepanze fra la
regolamentazione dell’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza
contenuta nel testo Unico bancario e quella dettata nella novellata
legge fallimentare, e che si debba, inoltre,verificare se e in quale
misura possono tuttora essere considerati validi i rinvii che l’art. 82
contiene alla legge fallimentare relativamente a parti che, direttamente
o indirettamente (come è avvenuto per le disposizioni richiamate
dall’art. 203 l. fall.), sono state oggetto di modifica da parte del
legislatore della riforma.
Come si vede, si tratta di interrogativi ai quali non è semplice dare
risposta. Secondo una recente e condivisibile opinione, ferma restando
la prevalenza della legge speciale ogniqualvolta essa disciplini in
maniera autonoma fasi del procedimento, che pure trovano corrispondenza
in analoghe fasi rette dalla normativa generale, per quel che concerne i
rinvii alle norme della legge fallimentare, si deve senz’altro
intendere che siano riferiti alla disciplina vigente, poiché in tal modo
viene salvaguardata la funzione, che ab origine il
legislatore ha attribuito ad essi, di regolare in maniera omogenea
elementi o fasi del procedimento presenti in procedure diverse2.
Tuttavia, l’applicazione delle disposizioni fallimentari, ancorché
richiamate dal Tub, non può avvenire automaticamente, qualora siano
state modificate dalla riforma della legge fallimentare, dovendo
anch’esse logicamente soggiacere in questo caso ad una verifica di
compatibilità con la disciplina speciale delle crisi delle imprese
bancarie. Queste riflessioni verranno, dunque, condotte sulla falsariga
della prospettiva interpretativa appena enunciata.
2. Presupposti soggettivi dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza
A differenza di quanto attualmente prevede l’art. 1, 2° comma, l.
fall.,tanto nella disciplina generale della liquidazione coatta
amministrativa, quanto in quella contenuta nel Tub, al fine della
dichiarazione giudiziale di insolvenza non è richiesto il superamento di
alcun limite dimensionale da parte dell’impresa in crisi e tale
circostanza ha sollevato dubbi di incostituzionalità per la disparità di
trattamento alla quale sarebbero sottoposte le imprese assoggettate al
fallimento rispetto a quelle per le quali è prevista la liquidazione
coatta amministrativa3.
Per le imprese bancarie, però,questa perplessità non sembra poter
essere condivisa. A parte l’ovvia constatazione che, nei fatti,
risulterà abbastanza difficile che le banche non superino almeno una
delle soglie di fallibilità previste dalla legge fallimentare4,
non si può non considerare che la disciplina dettata nel Tub è
direttamente funzionale alla tutela ed alla realizzazione degli
interessi della collettività direttamente coinvolti nel settore del
risparmio e del credito; pertanto, gli specifici requisiti dimensionali e
organizzativi, previsti dalla normativa primaria e secondaria per
l’accesso all’attività, le modalità prescritte per l’esercizio
dell’impresa ed il controllo su di essa, nonché, ovviamente, le regole
di gestione delle crisi costituiscono la risposta dell’ordinamento ad
istanze di ordine pubblico, sempre presenti, quando vi sia esercizio
dell’impresa bancaria, quali che siano le dimensioni che essa in
concreto abbia assunto.
A ciò si aggiunga che, se davvero si ritenesse inammissibile nei
confronti delle “piccole” banche la pronuncia giudiziale
dell’insolvenza, si determinerebbe una particolare situazione,
francamente poco comprensibile sul piano della coerenza logica e
giuridica, in base alla quale certamente l’Autorità governativa potrebbe
disporre la liquidazione coatta in caso di insolvenza, essendo tenuta a
provvedere già quando siano solo previste perdite di eccezionale
gravità5.
Ma, per effetto di questa singolare “amputazione” del procedimento, i
soggetti legittimati ai sensi del primo comma dell’art. 82 Tub – e in
primo luogo fra questi, i creditori, che non sono parimenti
legittimati a proporre la procedura di liquidazione coatta – verrebbero
privati dell’unico strumento, che può essere da essi esperito per
ottenerne l’apertura anche in caso di inerzia dell’Autorità competente;
per opinione pressoché unanime, infatti, una volta che sia stata
accertata giudizialmente l’insolvenza, l’autorità amministrativa
competente è tenuta a dare corso al procedimento di liquidazione.
Inoltre, durante la procedura liquidatoria sarebbe possibile rimpinguare
l’attivo attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie, che è anche
esso un effetto inscindibilmente connesso all’accertamento giudiziale
dell’insolvenza; ed è evidente che in una situazione in cui
presumibilmente non si potrà pervenire all’integrale soddisfacimento dei
crediti pregressi, il mancato esercizio delle revocatorie causerebbe
una ingiustificabile violazione del principio della par condicio,
dal momento che, nonostante il pesante ridimensionamento di cui sono
state oggetto a seguito della riforma del diritto fallimentare, esse
rimangono tuttora il principale mezzo per la ripartizione
dell’insolvenza sul ceto creditorio.
Parimenti invariati, ma eccedenti dall’ambito di queste riflessioni,
permangono gli interrogativi relativi alla individuazione delle “banche”
che possono essere sottoposte alla liquidazione coatta6;
nell’ambito di queste, poi, è altresì necessario stabilire anche quali
possano essere assoggettate all’accertamento giudiziale dell’insolvenza.
Tradizionalmente, il problema è stato posto soprattutto nei confronti
delle banche pubbliche, per le quali è opinione prevalente – avallata,
fra l’altro dal rinvio contenuto nell’art. 82, 1° comma, all’art. 195,
8° comma, l. fall., il quale esclude che l’accertamento giudiziario
dell’insolvenza possa essere pronunciato al di fuori del procedimento di
liquidazione coatta nei confronti degli enti pubblici – che la sentenza
dichiarativa dell’insolvenza possa intervenire solo dopo che
ne sia stata disposta la liquidazione coatta. Non soltanto rispetto alle
banche pubbliche, ma più in generale con riguardo a tutti gli enti
pubblici economici, in genere si ritiene che il legislatore avrebbe
intenzionalmente scelto di non sottoporre ad alcun vincolo la
discrezionalità della Pubblica Amministrazione nel disporre lo
scioglimento dell’ente7;
tale discrezionalità, infatti, verrebbe meno una volta che l’insolvenza
sia stata accertata giudizialmente, dal momento che in tal caso lo
scioglimento dell’ente da parte dell’Autorità competente – come si è
appena rammentato – è generalmente considerato un atto dovuto8.
Ovviamente, in questa prospettiva nulla osta, invece, a che
l’accertamento dell’insolvenza intervenga successivamente all’emanazione
del decreto di liquidazione, poiché l’Autorità amministrativa ha potuto
esercitare il piena libertà i suoi poteri di valutazione9.
Non si può, peraltro, omettere di segnalare che la questione presenta
attualmente scarsissima rilevanza pratica, dal momento che nel nostro
sistema sopravvive un’unica banca pubblica: l’Istituto per il credito
sportivo, il quale, peraltro,è stato posto in amministrazione
straordinaria con d.m. 28 dicembre 201110.
Continua egualmente a porsi in termini invariati la vexata quaestio
concernente l’individuazione della procedura alla quale deve essere
sottoposta la cosiddetta “banca di fatto” in caso di insolvenza. Come è
noto, se nel vigore dell’abrogata legge bancaria prevaleva nella
dottrina e nella giurisprudenza l’opinione secondo la quale l’esercizio
dell’attività bancaria, anche in difetto di autorizzazione, implicava in
caso di insolvenza l’assoggettamento dell’impresa alla disciplina delle
crisi bancarie11, attualmente, mentre la questione continua ad essere oggetto di vivaci contrasti dottrinali12,
presso la giurisprudenza di merito sembra si stia progressivamente
affermando una lettura “formalistica” dell’art. 1, 2°comma, lett. a),
Tub, in base alla quale la disciplina speciale si applicherebbe
elusivamente alle imprese bancarie autorizzate; di conseguenza il
problema dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza ex art.
82 Tub non si porrebbe proprio rispetto alle banche di fatto, poiché
queste, in caso di insolvenza, non potrebbero che essere assoggettate al
fallimento13.
Infine, per quel che concerne le succursali di banche estere, che
svolgono l’attività nel territorio nazionale, ne può essere dichiarata
l’insolvenza soltanto nel caso in cui esse possano essere sottoposte a
liquidazione coatta secondo le regole del nostro ordinamento: infatti,
la dichiarazione di insolvenza è una fase – peraltro soltanto eventuale –
del procedimento di liquidazione coatta e l’emanazione di una sentenza
che la accerti ha un senso solo se vi è la possibilità giuridica che si
innesti nel suddetto procedimento. È necessario, dunque, distinguere a
seconda che si tratti di succursali di banche extracomunitarie ovvero di
banche comunitarie14.
Per le prime l’assoggettamento al procedimento di liquidazione coatta
secondo le regole del nostro ordinamento è espressamente sancito
dall’art. 95 Tub, ai sensi del quale le banche extracomunitarie
soggiacciono alla disciplina della liquidazione coatta amministrativa15. Le banche comunitarie, invece, sono sottoposte esclusivamente alla disciplina dell’insolvenza prevista dal Paese di origine16; infatti, l’art. 95–quater,
2° comma – che è fra le norme introdotte nel Tub dal d. lg. 9 luglio
2004, n. 197, in adeguamento alla Direttiva 2001/24/CE in materia di
risanamento e liquidazione degli enti creditizi17 –
riconosce alla Banca d’Italia soltanto il potere di rivolgere una
richiesta all’Autorità di vigilanza dello Stato d’origine, segnalando la
necessità di attivare una procedura di risanamento nei confronti della banca comunitaria operante nel territorio nazionale, nel pieno rispetto del principio dell’home country control,
recepito dalla Direttiva comunitaria, che attribuisce alle autorità
dello Stato d’origine piena competenza nella gestione della crisi18.
3. L’insolvenza delle banche
Anche con riguardo alle caratteristiche dell’oggetto dell’accertamento
giudiziale (lo stato di insolvenza) non si devono segnalare novità
conseguenti alla riforma del diritto fallimentare. Come in precedenza,
resta aperto il dibattito relativo alla nozione di insolvenza delle
banche, che vede parte della dottrina sostenere che il concetto di
insolvenza di cui all’art. 5. l. fall. ha carattere “universale”, nel
senso che è ad esso che si deve fare riferimento per tutte le procedure
di crisi – e, dunque, anche in quelle bancarie – nelle quali è
richiamato19,
e altra parte, fortemente sostenuta dalla giurisprudenza, che, pur
quando evoca in via di principio la sovrapponibilità fra le nozioni di
insolvenza bancaria e fallimentare, perviene, però, ad affermare,
enfatizzandole peculiarità dell’attività bancaria, che l’insolvenza
della banca può essere dichiarata in un momento cronologicamente
anteriore, rispetto a quello ricavabile mediante l’applicazione della
nozione generale, in quanto deve essere già considerata sussistente in
presenza di particolari indicatori tecnici, fra i quali particolare rilievo viene attribuito alla risultanza di un ingente e prognosticamente irreversibile deficit patrimoniale20.
Vi è, poi, una tesi “intermedia”, che distingue fra l’insolvenza della
banca non ancora sottoposta a liquidazione coatta, che dovrebbe essere
individuata secondo i principi della legge fallimentare, e l’insolvenza
della banca accertata nel corso del procedimento di liquidazione, che
coinciderebbe “con l’accertamento della insufficienza dell’attivo
rispetto all’entità del passivo, cioè con una situazione di deficit patrimoniale dell’impresa”21.
4. I soggetti legittimati a richiedere l’accertamento giudiziale dell’insolvenza
Se la banca non è stata ancora sottoposta a liquidazione coatta sono
legittimati a richiedere la dichiarazione giudiziale di insolvenza i
creditori, il pubblico ministero, nonché i commissari straordinari,
qualora sia in corso una procedura di amministrazione straordinaria;
inoltre, lo stato d’insolvenza può essere dichiarato d’ufficio dal
Tribunale. Dopo l’emanazione del provvedimento di liquidazione, invece,
alla dichiarazione giudiziale di insolvenza si può pervenire per
iniziativa dei commissari liquidatori22, del pubblico ministero ovvero del Tribunale competente in via officiosa23.
Tanto nel primo, quanto nel secondo comma della norma, la gamma dei
soggetti legittimati è, dunque, differente rispetto alla disciplina
generale contenuta nella legge fallimentare. Per quel che concerne il
primo comma, l’elencazione in esso contenuta diverge non solo rispetto a
quanto stabiliva l’abrogato art. 195, 1° comma, l. fall., che si
limitava a menzionare soltanto i creditori24,
ma non coincide nemmeno con la formulazione vigente della norma,che
affianca ai creditori la stessa impresa e l’Autorità che svolge la
vigilanza su di essa25;
parimenti, l’art. 82, 2° comma, Tub, contempla la dichiarazione
giudiziale officiosa, che non è, invece, prevista nell’art. 202, 1°
comma, l. fall., il quale non è stato modificato dalla riforma.
Se, dunque, si eccettua il mancato riconoscimento della legittimazione
in capo al debitore, il primo comma della disposizione in esame
fedelmente ricalca l’abrogato art. 6. l. fall. nella individuazione dei
soggetti legittimati a provocare il fallimento26.
In passato, in virtù di tale coincidenza, era pacificamente ammesso che
gli interrogativi, che si ponevano relativamente all’iniziativa per la
dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, dovessero essere
affrontati e risolti, adottando le regole dettate in materia di
fallimento come normativa unitaria di riferimento27.
E, in effetti, la legittimità di tale operazione interpretativa
appariva inoppugnabile, dal momento che, in assenza di una disciplina
specifica, la sia pure parziale sovrapponibilità con i soggetti ai quali
era consentito di assumere l’iniziativa per la dichiarazione di
fallimento non lasciava margini di dubbio circa la compatibilità delle disposizioni della legge fallimentare,
le quali risultavano, pertanto, anche applicabili all’accertamento
giudiziario dell’insolvenza, ai sensi dell’art. 80, ultimo comma, Tub.
Attualmente, invece, la riforma del diritto fallimentare, che ha
segnato la scomparsa del fallimento d’ufficio e l’introduzione di una
disciplina innovativa dell’iniziativa del pubblico ministero, rende
assai più dubbia la legittimità di una analoga operazione e, come è
agevole intuire, solleva questioni di non facile soluzione. Tali
questioni, ovviamente, non concernono né la situazione dei creditori, né
quella dei commissari straordinari (e dei commissari liquidatori, di
cui all’art. 82, 2° comma,Tub), che è rimasta sostanzialmente invariata.
Rispetto ai primi, una volta che si sia rammentato che, attraverso il
perdurante riconoscimento del potere di iniziativa si consente ai
creditori – che non sono inclusi fra i soggetti che possono sollecitare
l’emissione del provvedimento di liquidazione ex art. 80 Tub –
di provocare indirettamente l’apertura della procedura, per gli aspetti
che vengono qui presi in considerazione la posizione dei creditori della
banca appare tuttora assimilabile a quella dei creditori del fallito,
sicché è lecito rinviare alle conclusioni formulate dalla dottrina ed
dalla giurisprudenza rispetto a questi ultimi28.
Lo stesso può dirsi per i commissari straordinari e i commissari
liquidatori: i primi, dunque, qualora nel corso dell’amministrazione
straordinaria riscontrino la situazione di insolvenza della banca
possono tanto formulare l’istanza di apertura della procedura di
liquidazione forzata, di cui all’art. 80, 2° comma, Tub29,
quanto adire il Tribunale per ottenere che l’insolvenza venga
giudizialmente dichiarata, per un verso, “forzando” l’Autorità
governativa a disporre la liquidazione della banca e, per altro verso,
anticipando ad un momento anteriore all’apertura del procedimento di
liquidazione lo spiegarsi degli effetti di cui all’art. 203 l. fall.,
entro i limiti che verranno di seguito illustrati30.
Invece, essendo la procedura già in corso, il ricorso dei commissari
liquidatori appare esclusivamente finalizzato a consentire, a seguito
dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza, l’esercizio delle azioni
revocatorie, ai sensi della disposizione da ultimo citata.
5. Segue. L’iniziativa del pubblico ministero e i poteri officiosi del Tribunale
A fronte delle profonde innovazioni apportate dalla riforma della legge
fallimentare, ben più ardui sono gli interrogativi che si pongono con
riguardo all’individuazione dei presupposti per l’iniziativa del
pubblico ministero e per la dichiarazione di insolvenza motu proprio da parte del Tribunale. Come è stato osservato, eliminata la possibilità che si pervenga alla dichiarazione di fallimento ex officio, l’art. 7 l. fall. delinea ora “due macroaree funzionali in cui può trovare fondamento l’iniziativa del pubblico ministero”31,
corrispondenti rispettivamente alle ipotesi di emersione
dell’insolvenza nel corso di un procedimento penale ovvero nel corso di
un procedimento civile. Se la prima di tali macroaree, sia pure con
qualche fatica, può essere ricondotta alla previgente disciplina o
quantomeno all’interpretazione che ne dava quella parte della dottrina
secondo la quale l’iniziativa del pubblico ministero poteva essere
esercitata esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale32,
del tutto nuova è l’area di legittimazione contemplata dall’art. 7, n.
2, palesemente introdotta in sostituzione della soppressa iniziativa
officiosa del Tribunale33, ai sensi della quale è ora consentito al pubblico ministero di richiedere la dichiarazione di fallimento34,
nel caso in cui la segnalazione dell’insolvenza gli sia pervenuta da un
altro giudice, il quale l’abbia rilevata nel corso di un procedimento
civile35.
È mancata, però, l’opera di raccordo con le normative di settore,
sicché, tanto la disposizione in commento, quanto l’art. 3 d. lg n.
270/1999, relativamente all’amministrazione straordinaria delle grandi
imprese, prevedono tuttora che la dichiarazione giudiziale di insolvenza
possa essere pronunziata d’ufficio dal Tribunale. È certamente
possibile, come è stato sostenuto, che la sopravvivenza di tale potere
officioso debba essere considerata “un’evidente incoerenza normativa”,
probabilmente imputabile alla “non sopraffina conoscenza della realtà
legislativa di contorno”36;
tuttavia, quantomeno per le crisi bancarie, la tutela degli interessi
della collettività conserva tuttora una rilevanza tale da indurre a
ritenere non ingiustificata la permanenza della possibilità che si
pervenga alla dichiarazione giudiziale di insolvenza vuoi ex officio,
vuoi per iniziativa del pubblico ministero. Non v’è dubbio, però, che
il mancato coordinamento dell’art. 82 Tub con la novellata disciplina
fallimentare imponga all’interprete il difficile compito di delineare le
aree di operatività – intuitivamente interdipendenti – della
legittimazione officiosa del Tribunale e dell’azione del pubblico
ministero.
Fra i percorsi interpretativi astrattamente proponibili a tal fine non
appare praticabile quello che volesse configurare una sorta di
sopravvivenza postuma degli abrogati artt. 7 e 8 l. fall., dal momento
che né il Tub, né la disciplina generale della liquidazione coatta
amministrativa contengono alcun diretto rinvio a tali disposizioni, la
cui applicabilità alle normative di settore, come si è già rammentato,
era giustificata esclusivamente da esigenze di uniformità di
regolamentazione del fenomeno della liquidazione concorsuale,esplicitata
in materia di crisi bancarie dall’operatività – in assenza di una
normativa specifica – del principio della “compatibilità”, enunciato
nell’art. 80, ultimo comma, Tub37.
In applicazione di questo stesso principio, ancora in vigore, non
sembra nemmeno che si possa accedere alla tesi che perviene ad una
interpretazione sostanzialmente abrogatoria della dichiarazione
officiosa dello stato di insolvenza38;
anche se non si può non apprezzare lo sforzo di ricondurre ad unità il
sistema, tale opinione,che si fonda sui dati normativi costituiti dalla
soppressione dell’art. 8 l. fall. e dall’attuale contenuto dell’art. 7
l. fall., finisce per non dare alcun peso alla circostanza che alla
formulazione della disposizione in commento non sia stata apportata
alcuna variazione a seguito della riforma del diritto fallimentare.
Qualora, invece, si aderisca alla opinione pienamente rispettosa della
lettera della norma, che reputa del tutto ammissibile che tuttora si
pervenga d’ufficio alla dichiarazione giudiziale dello stato di
insolvenza39, si deve ammettere che il venir meno del dato normativo costituito dall’abrogato art. 8 l. fall.40
apre un percorso, per così dire, obbligato per individuare i confini
dell’attività officiosa del Tribunale, dal momento che, in assenza di
una disciplina specifica – non diversamente, come si vedrà, da quanto
deve ritenersi che ora avvenga per l’iniziativa del pubblico ministero –
essi non possono che essere delineati facendo riferimento a principi di
carattere generale.
Nel nostro sistema di diritto privato, incentrato sul cosiddetto “principio della domanda”, enunciato dall’art. 2907 c.c.41, rispetto al quale ogni deroga riveste carattere di tassatività ed eccezionalità, nei casi in cui la legge consenta tout court
l’iniziativa officiosa del Tribunale, il punto critico è costituito –
come è da tempo diffusamente riconosciuto – dalla necessità di marcare
nettamente la separazione fra il giudice–attore e il giudice–organo
della giurisdizione allo scopo di evitare ogni possibile commistione di
ruoli, che, ledendo il principio della terzietà e della imparzialità
dell’organo giudicante, si esporrebbe alla eccezione di
incostituzionalità. È altresì noto che tale questione è stata oggetto di
una pronuncia della Corte Costituzionale42,
la quale, quasi in margine della riforma della legge fallimentare, ha
affermato la legittimità del fallimento d’ufficio nel rispetto, però, di
talune condizioni, nella medesima sentenza esplicitate, che, a ben
vedere, risultano del tutto indipendenti dalla disciplina allora vigente
del fallimento e possono, pertanto, essere tuttora utilizzate in via
generale per individuare i caratteri dei poteri officiosi del Tribunale.
L’assunto intorno al quale ruota la sentenza è costituito dalla
asserzione della legittimità della iniziativa officiosa, qualora sia
prevista dal legislatore, a condizione che sia salvaguardato il
principio di terzietà del giudice, come soggetto super partes equidistante dagli interessi coinvolti; a tal fine è necessario che la conoscenza dello stato di insolvenza derivi ad esso ab externo,
sì da evitare la coincidenza nell’organo giudicante del duplice ruolo
di giudice ed attore, e che non si tratti di una conoscenza comunque
acquisita43, ma che provenga da una “fonte qualificata”44.
Di tali fonti qualificate la sentenza offre una casistica, alla quale
correttamente la dottrina ha riconosciuto carattere esemplificativo
della esternità della sollecitazione45, di tal che, in un ambito prettamente concorsuale, deve ritenersi che sia tale la segnalazione proveniente da qualunque
giudice che nell’ambito di un procedimento pendente abbia acquisito
notizia dell’insolvenza, ivi compreso il giudice incompetente presso il
quale il procedimento sia stato erroneamente incardinato. Quantomeno
dubbio è, invece, se – in una situazione che si pone, per cosi dire “a
cavallo” fra iniziativa officiosa e iniziativa del pubblico ministero –
possa ritenersi consentito al Tribunale adito, nel caso in cui sia
venuto meno l’impulso di parte (per desistenza ovvero perché ne sia sta
accertata la carenza di legittimazione)46,
di segnalare esso stesso la situazione di insolvenza al pubblico
ministero, sollecitandone, nei fatti, l’azione ovvero se una condotta di
tal genere debba essere reputata inammissibile, perché in lesiva del
principio di terzietà ed imparzialità del giudice47.
Per quel che concerne, invece, il pubblico ministero, se si condividono
le osservazioni fin qui formulate, si deve prendere atto della
impossibilità di fare riferimento al vigente art. 7 l. fall. per
definirne i poteri di iniziativa: i mutati equilibri del sistema,
conseguenti all’eliminazione del fallimento di ufficio ed al
corrispondente potenziamento della legittimazione del pubblico
ministero, rendono la disposizione vigente palesemente incompatibile con
la disciplina della iniziativa per la dichiarazione giudiziale di
insolvenza dettata nel Tub, non fosse altro che per la inevitabile
sovrapposizione e confusione fra i poteri officiosi del Tribunale e
quelli del pubblico ministero, che all’applicazione di tale disposizione
conseguirebbero. Anche la definizione del ruolo del pubblico ministero
deve, pertanto, essere “ripensata”, facendo ricorso a principi di
carattere generale ed è naturale che in primo luogo venga in
considerazione la funzione da esso svolta nella persecuzione dei reati
fallimentari nell’ambito della liquidazione coatta delle banche48.
In particolare, ai sensi dell’art. 238 l. fall., l’esercizio
dell’azione penale relativa alle diverse figure del reato di bancarotta
richiede che l’insolvenza sia stata giudizialmente dichiarata o,
quantomeno, che in presenza di gravi motivi già esista o sia
contestualmente presentata domanda per ottenere la dichiarazione
giudiziale.
La disposizione appena richiamata evidentemente implica una “ricaduta”
del principio della obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale da
parte del pubblico ministero, in presenza di una notizia criminis, comunque pervenutagli, su tutti gli atti necessariamente propedeutici e strumentali alla proposizione di tale azione49;
di conseguenza, si deve ritenere che, ove ricorrano le circostanze
appena menzionate, anche in assenza di una espressa prescrizione
normativa il pubblico ministero abbia il dovere di attivarsi per ottenere la dichiarazione giudiziale di insolvenza in funzione della persecuzione dei reati fallimentari50.
Più complesso è, evidentemente, stabilire se, al di là di queste
ipotesi, sussista una generale legittimazione del pubblico ministero,
che abbia avuto notizia del dissesto di una banca, a proporre l’istanza
per la dichiarazione giudiziale di insolvenza51.
Non soccorre a tal fine il principio della tassatività delle
fattispecie di esercizio dell’azione civile sancito dall’art. 69 c.p.c. e
dall’art. 2907 c.c.52,
dal momento che ciò che è in discussione non è la legittimazione del
pubblico ministero, espressamente riconosciuta dal primo e dal secondo
comma dell’art. 82 Tub, bensì se tale legittimazione si estenda al di là
dell’azione penale e delle attività strumentali ad essa. Si deve,
tuttavia, riconoscere che il vuoto normativo non consente di scegliere
con sicurezza fra la tesi che risponde negativamente a tale
interrogativo, adducendo che non vi è traccia del nostro ordinamento del
riconoscimento in capo al pubblico ministero di un potere inquisitorio e
di vigilanza sulla salute delle imprese53, e quella che, invece, muovendo dalla constatazione che il pubblico ministero è titolare di un munus publicum, reputa che non possa astenersi dall’agire in ogni caso in cui abbia avuto comunque notizia del verificarsi della fattispecie sostanziale che dell’azione costituisce il presupposto54.
In questa sede ci si limiterà a convenire con coloro che sottolineano
il “carattere squisitamente politico” di ogni deroga al principio della
domanda55,
che porterebbe a reputare assolutamente urgente un intervento normativo
che introduca una precisa regolamentazione dei poteri di iniziativa del
pubblico ministero ed eventualmente riformuli l’intera disciplina della
iniziativa per la dichiarazione dello stato di insolvenza, tenendo
conto delle innovazioni introdotte dalla riforma del fallimento56.
6. Il procedimento
Il Tribunale competente a pronunciare la dichiarazione giudiziale di insolvenza è quello del luogo dove la banca ha la sede legale,
a differenza di quanto è previsto dalla legge fallimentare, che – vuoi
con riguardo alla dichiarazione giudiziale di insolvenza nell’ambito
della disciplina generale della liquidazione coatta (artt. 195, 1°
comma, e 202, 1° comma, l. fall.), vuoi per la dichiarazione di
fallimento (art. 9 l. fall.) – fa costantemente riferimento alla sede principale
dell’impresa, generalmente intesa come il luogo dal quale vengono
impartite le direttive e vengono organizzati e coordinati i fattori
della produzione57.
Benché le ragioni della scelta non siano affatto chiare, al fine della
individuazione della sede legale, che solo presuntivamente coincide con
la sede principale della banca, si deve, pertanto, far riferimento alle
risultanze dell’iscrizione nel registro delle imprese ex art. 2196, 1° comma, c.c.58.
Per quel che concerne le succursali di banche extracomunitarie, che
potrebbero essere più d’una, in mancanza di una regola espressa si è
sostenuto che la competenza per la dichiarazione di insolvenza spetti al
Tribunale del luogo dove è allocata la sede di primo impianto59 ovvero, secondo altri, la sede principale60.
Benché per ovvi motivi di ordine cronologico l’art. 82 Tub non ne
faccia cenno, è altresì ragionevole ritenere che, al fine della
individuazione del Tribunale competente sia irrilevante il trasferimento
della sede legale della banca, che sia intervenuto nell’anno
antecedente all’apertura del procedimento. Non soltanto la regola è ora
contenuta nell’art. 195, 1° comma., ultima parte, l. fall., che può ben
essere invocato per integrare la disciplina del procedimento in forza
del rinvio di cui all’art. 80, ultimo comma, Tub, ma soprattutto essa
esprime un principio di carattere sostanziale – evitare la pratica del
cosiddetto forum shopping – che era già stato recepito dalla giurisprudenza della Suprema Corte61.
Le uniche prescrizioni concernenti lo svolgimento della procedura
direttamente ricavabili dall’art. 82 Tub hanno ad oggetto l’indicazione
dei soggetti che devono necessariamente essere sentiti prima che il
Tribunale adotti qualsivoglia provvedimento in ordine alla sussistenza
dello stato di insolvenza. In ogni caso, tanto se la banca sia
sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, quanto se la procedura
non sia stata ancora avviata, devono essere ascoltati i legali
rappresentanti della banca stessa, anche se cessati62, e la Banca d’Italia63;
ad essi si aggiungono i commissari straordinari, se è stata aperta una
procedura di amministrazione straordinaria (i quali, secondo parte della
dottrina, dovrebbero essere sentiti, anche se cessati dall’incarico,
qualora a seguito dell’amministrazione straordinaria sia intervenuta la
liquidazione coatta64), nonché i commissari liquidatori, se il procedimento di liquidazione sia già in corso.
Per il resto, il procedimento è governato attraverso molteplici rinvii
all’art. 195 l. fall., che pongono l’interprete di fronte
all’alternativa se intendere il richiamo riferito alla disciplina
vigente nel momento in cui il Tub è stato emanato, ignorando
l’intervenuta riforma del diritto fallimentare, ovvero a quella
attualmente in vigore, tenendo anche presente che, nel caso in cui si
scegliesse questa seconda strada, le regole applicabili dovrebbero
essere individuate non più sulla base di un dato formale (la numerazione
dei commi menzionati dell’art. 195), bensì attraverso un’indagine di
carattere sostanziale, che consideri l’attuale collocazione delle
suddette regole nel novellato art. 195 l. fall65.
A favore dell’interpretazione conservativa potrebbe addursi il rispetto
della volontà del legislatore, che, quando ha emanato il Tub aveva
presente un determinato sistema normativo di riferimento – quello
dell’abrogata legge fallimentare – al quale non ha nei fatti derogato;
in senso contrario, si è, però, condivisibilmente obiettato che per
questa via si perverrebbe ad una netta ed ingiustificabile frattura fra
la disciplina generale della liquidazione coatta, contenuta nella legge
fallimentare, e quella speciale dettata nel Testo Unico, laddove,
invece, soprattutto con riguardo alla dichiarazione giudiziale di
insolvenza e agli effetti di questa, il legislatore si è costantemente
mosso nell’intento di delineare nella legge fallimentare una struttura
normativa “di base”, per un verso, idonea ad integrare in maniera
omogenea le eventuali lacune delle leggi di settore e, per altro verso,
essa stessa integrabile dalle disposizioni dettate in materia di
fallimento, naturalmente in quanto compatibili, sì da assicurare
coerenza ed organicità di fondo all’intero sistema delle procedure
concorsuali66.
Sulla base di queste premesse si può, dunque, osservare che il
procedimento, che conduce alla sentenza dichiarativa dell’insolvenza
delle banche67,
è sostanzialmente identico, tanto se si svolga anteriormente, quanto se
sia posteriore al provvedimento che dà inizio alla liquidazione coatta,
con l’ovvia eccezione costituita dalla circostanza per cui soltanto nel
caso in cui l’accertamento giudiziale sia anteriore al decreto di
apertura del procedimento di liquidazione al Tribunale è consentito di
adottare, con la sentenza o con un successivo decreto, provvedimenti
cautelari a tutela dei creditori68.
Benché ora occupi il quarto comma dell’art. 195, non è stato nemmeno
modificato – tanto nelle modalità, attraverso il richiamo all’art. 136
c.p.c., quanto per il termine di tre giorni – l’obbligo di comunicazione
della sentenza all’autorità competente69,
affinché disponga la liquidazione dell’ente, che, ove non sia stata
ancora decretata, costituisce uno degli effetti necessitati della
dichiarazione giudiziale di insolvenza. La norma trova però
applicazione, in forza del richiamo contenuto nell’art. 82, 2° comma,
Tub, anche quando la dichiarazione giudiziale di insolvenza interviene
successivamente alla emanazione del decreto di apertura della procedura
di liquidazione e, in tal caso, produce gli effetti di cui all’art. 203
l. fall.
Parimenti invariata è rimasta la seconda parte del quarto comma
dell’art. 195 l. fall., ai sensi del quale si applicano alla
dichiarazione dello stato di insolvenza le disposizioni concernenti la
notifica e la pubblicità della sentenza di fallimento. In questo caso,
però, alla immutata formulazione della norma – che, per un’evidente
svista, menziona ancora l’affissione – corrisponde una normativa di
rinvio profondamente modificata dalla riforma70.
Il regime del gravame che si applica alla sentenza dichiarativa
dell’insolvenza delle banche deve essere ricostruito mediante un doppio
rinvio: dall’art. 82, 1° e 2° comma, Tub, ai commi quarto e quinto della
abrogata versione dell’art. 195 l. fall., ora “traslati” nel comma
quinto, totalmente innovato, della disposizione vigente, il quale, a sua
volta rinvia agli artt. 18 e 19 l. fall., che disciplinano
l’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento ed un
potenziale effetto – la sospensione della liquidazione dell’attivo – ad
essa conseguente. Pertanto, il rimedio avverso la sentenza di
accertamento dello stato di insolvenza è ora costituito dal reclamo alla
Corte d’appello71,
proposto nei modi e nei tempi di cui all’art. 18 l. fall., la cui
applicabilità nell’ambito della disciplina dell’accertamento giudiziale
dell’insolvenza non sembra porre particolari problemi, salvo che per le
disposizioni contenute negli ultimi due commi della norma. Non v’è
dubbio, infatti, che il quindicesimo comma dell’art. 18, ai sensi del
quale sono fatti salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti dagli
organi della procedura, in caso di revoca del fallimento, non possa
trovare applicazione qualora la revoca della dichiarazione giudiziale di
insolvenza intervenga prima dell’emanazione del decreto di
liquidazione: in tal caso non vi sono ancora né organi della procedura,
né atti imputabili ad essa, poiché gli effetti ablativi tipici delle
procedure concorsuali liquidative non si producono dalla sentenza, bensì
dal provvedimento emesso dall’autorità governativa competente72.
Parimenti, se la revoca della sentenza dichiarativa dell’insolvenza
viene pronunciata nel corso del procedimento di liquidazione,
l’efficacia conservativa dovrebbe intendersi riferita agli atti che
nella sentenza medesima trovano il loro presupposto; tale conclusione è,
però, evidentemente inaccettabile dal momento che le conseguenze della
dichiarazione di insolvenza consistono nella esperibilità delle azioni
revocatorie e nell’applicabilità delle norme relative ai reati
fallimentari ed è pacifico che dal venir meno dell’accertamento
giudiziale derivi a carico della procedura il dovere di provvedere a
rimuovere gli effetti già prodottisi a causa dell’esercizio delle
revocatorie e dell’azione penale73.
Allo stesso modo non sembra che possa trovare applicazione non soltanto
con riferimento alla dichiarazione giudiziale di insolvenza, ma proprio
rispetto alla procedura di liquidazione coatta l’art. 18, ultimo comma,
l. fall., che disciplina le modalità di liquidazione delle spese della
procedura e del compenso al curatore, attribuendone la competenza al
Tribunale. Anche in questo caso giova ripetere che, se la revoca della
sentenza dichiarativa dell’insolvenza è anteriore al decreto di apertura
della liquidazione, non vi possono essere spese della procedura, né da
compensi da liquidare; se è posteriore, non è idonea a causare la
cessazione della procedura, la quale prosegue finché non intervenga una
determinazione del Ministro dell’economia, che, essendo l’autorità
competente a decretare l’inizio della liquidazione coatta,
presumibilmente è anche competente a revocare il provvedimento nel caso
in cui sia accertata l’insussistenza del presupposto in base al quale
questo è stato emanato. Non v’è dubbio che la mancanza di una disciplina
specifica degli effetti della revoca del provvedimento di liquidazione
coatta amministrativa ponga molteplici problemi, che in questa sede non
possono nemmeno sommariamente essere tratteggiati e che fra essi debbano
anche essere annoverati quelli relativi all’individuazione delle
modalità di liquidazione delle spese sostenute per la procedura, ma,
quantomeno per quel che concerne questi ultimi, si può con una certa
sicurezza affermare che, a fronte della palese inapplicabilità del
richiamato ultimo comma dell’art. 18 l. fall., essi devono trovare
soluzioni coerenti con la struttura e la disciplina della liquidazione
coatta amministrativa, piuttosto che del fallimento74.
Del tutto incomprensibile e frutto di un’evidente errore del
legislatore è, poi, il rinvio all’art. 19 l. fall., ai sensi del quale,
in presenza di gravi motivi, la Corte d’appello su richiesta di parte o
del curatore può sospendere parzialmente o anche temporaneamente la
liquidazione dell’attivo: anche nel caso in cui la revoca della sentenza
dichiarativa dell’insolvenza sia pronunciata nel corso della
liquidazione, è del tutto evidente che non ne può influenzare lo
svolgimento, dal momento che la decisione circa la sospensione delle
attività di liquidazione e, eventualmente, la revoca del procedimento
sono assolutamente estranee alle competenze dell’autorità giudiziaria75.
Invariato nella formulazione letterale e nella collocazione è rimasto,
infine, il comma sesto dell’art. 195 l. fall., ai sensi del quale il
rigetto del ricorso per la dichiarazione di insolvenza deve essere
pronunciato dal Tribunale con decreto reclamabile ai sensi dell’art. 22
l. fall., la cui applicabilità non sembra sollevare particolari
problemi, benché la norma sia stata oggetto di modifica in sede di
riforma del diritto fallimentare.
7. Il rinvio all’art. 203 l. fall.
Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 82 Tub, la dichiarazione
giudiziale di insolvenza produce gli effetti previsti dall’art. 203 l.
fall. Pertanto, a) dalla data del provvedimento di liquidazione risulta applicabile la disciplina delle azioni revocatorie ordinarie e fallimentari; b)
i commissari liquidatori sono tenuti a presentare al Procuratore della
Repubblica una relazione nel rispetto dei termini e dei contenuti
previsti dall’art. 33 l. fall. per la relazione che il curatore deve
rendere al giudice delegato.
Se quest’ultimo adempimento non sembra sollevare specifici problemi di
coordinamento, anche tenendo conto delle modifiche apportate all’art. 33
dalla riforma76, il richiamo alla disciplina delle azioni revocatorie77 – come precisa la norma – con effetto dalla data del provvedimento di liquidazione ripropone
anche nell’ambito della liquidazione coatta delle banche le controverse
questioni concernenti l’armonizzazione dei termini – prescrizionali e
di misurazione del cosiddetto periodo sospetto – rispetto ad una
sequenza procedimentale non vincolata, potendo intervenire la
dichiarazione giudiziale di insolvenza sia prima, sia dopo l’emanazione
del decreto di liquidazione78.
Per il resto, dato il rilievo che queste problematiche hanno sul piano
della pratica, ci si limiterà sinteticamente a rammentare che:
a) con riguardo al decorso del termine di prescrizione per
l’esercizio delle azioni revocatorie è opinione prevalente che, in
mancanza di una specifica disposizione, trovi applicazione la disciplina
generale di cui all’art. 2935 c.c., ai sensi della quale il suddetto
termine decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.
Esso deve, dunque, essere computato dalla data del decreto che dispone
l’apertura della procedura e la nomina del commissario, se la sentenza
dichiarativa dell’insolvenza è antecedente ad esso, ovvero dalla data
della sentenza, se questa è stata emessa nel corso del procedimento79;
b) per quel che concerne, invece, il decorso del cosiddetto
periodo sospetto la più recente giurisprudenza della Suprema Corte ne
fissa l’inizio dalla data dell’emanazione del provvedimento di
ammissione alla procedura, tanto se l’accertamento giudiziale la
preceda, quanto se sia successivo ad essa80.
1
Per le opposte tesi si vedano, rispettivamente, DESIDERIO, Commento sub art. 82, in Comm. Capriglione al Tub, 2a ed., I, Padova, 2001, 641 ss., e FORTUNATO, La liquidazione coatta delle banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, I, 765, ai quali adde BONFATTI – FALCONE, Commento sub art. 82, in Comm. Belli – Contento – A. Patroni Griffi – Porzio – Santoro, II, Bologna, 2003, 1343, con ulteriori riferimenti bibliografici in nota.
2
Così, BELLÈ, Commento sub art. 195, in Comm. Ferro, Padova, 2007, 1504; ma si veda, anche, TEDESCHI, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 586, nonché, di recente, BONFATTI, sub Art. 194, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro – Sandulli– Santoro, III, 2010, 2374.
3
La questione è stata approfondita soprattutto da BELLÈ, cit.,
1526, secondo il quale le soglie di fallibilità di cui all’art. 1 l.
fall. troverebbero applicazione soltanto nel caso in cui l’ente possa
essere assoggettato alternativamente a fallimento o a liquidazione
coatta amministrativa. Non è chiara, invece, la ragione per la quale,
secondo PLATANIA, Commento sub art. 195, in Cod. Lo Cascio,
Milano, 2008, 1678, la mancata previsione di limiti dimensionali per le
imprese soggette ad accertamento giudiziale dell’insolvenza violerebbe
il principio costituzionale di parità di trattamento solo nel caso in
cui il suddetto accertamento preceda l’apertura del procedimento di
liquidazione e non anche quando intervenga nel corso della procedura
liquidativa.
4
Così, infatti, BELLÈ, cit., p. 1527.
5
Cfr. BONFATTI, Commento sub art. 80, in Comm. Belli – Contento – A. Patroni Griffi – Porzio – Santoro,
II, Bologna, 2003, 1292, secondo il quale l’attuale contesto normativo
consente di affermare che il provvedimento di liquidazione coatta può
essere emesso anche nel caso in cui le perdite di eccezionale gravità
siano soltanto previste, ma non si siano ancora verificate.
6
Su tale questione si rinvia a BONFATTI, cit., 1267 ss.
7
Così, ad esempio, CASTIELLO D’ANTONIO, Sull’applicabilità dell’art. 202 l. fall. agli enti pubblici assoggettati a liquidazione concorsuale, in Diritto concorsuale amministrativo. Studi, Padova, 1997, 137.
8
BONFATTI, cit., 1299, ove ulteriori citazioni bibliografiche.
9
Fortemente critico nei confronti dell’art. 82 Tub, accettandone l’interpretazione prevalente, è MINERVINI, Il vino vecchio negli otri nuovi, in Giur. comm., 1994, 967.
10
Sulla questione si veda, di recente, ANTONUCCI, Diritto delle banche,
5° ed., Milano, 2012, 147 ss. Pertanto, solo per completezza espositiva
si rammenta che, tanto l’art. 82, 2° comma, Tub, quanto gli artt. 195,
ultimo comma, e 202, ultimo comma, l. fall., risultano formulati in
maniera abbastanza ambigua, sì da giustificare anche ipotesi
interpretative del tutto diverse. Si è così osservato che l’art. 82, 2°
comma, nella parte in cui prevede che l’insolvenza, anche di una banca avente natura pubblica, possa essere accertata successivamente alla emanazione del decreto di liquidazione, se non è stata dichiarata a norma del comma 1°, lascerebbe intendere che pure per le banche pubbliche sia possibile addivenire alla dichiarazione giudiziale di insolvenza prima che ne sia stata disposta la liquidazione coatta (così, con qualche perplessità, DESIDERIO, cit.,
649). Secondo Altri, invece, la circostanza che, ai sensi dell’art.
202, 1° comma, l. fall., l’accertamento giudiziario dello stato di
insolvenza successivo all’apertura della liquidazione coatta
amministrativa possa intervenire, se questa non è stata preventivamente dichiarata a norma dell’art 195,
unita al mancato richiamo nell’ultimo comma della norma all’art. 195,
ultimo comma, l. fall. – il quale esclude l’applicabilità della
disciplina relativa all’accertamento giudiziario dell’insolvenza
anteriore all’inizio del procedimento agli enti pubblici – indurrebbe a
ritenere che la dichiarazione di insolvenza possa essere pronunciata
successivamente all’emissione del decreto di liquidazione solo nei
confronti degli enti verso i quali era possibile, ma non è stato
effettuato, l’accertamento preventivo. Ne deriverebbe, pertanto, che
l’insolvenza non potrebbe mai essere giudizialmente dichiarata
nei confronti di enti pubblici. L’opinione era già sostenuta nel vigore
della abrogata legge bancaria: cfr., per tutti, BELVISO, Tipologia e normativa della liquidazione coatta amministrativa, Napoli, 1973, 174. I termini della questione sono diffusamente esposti da C. BAVETTA, L’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, in Le procedure concorsuali. Procedure minori, a cura di Ragusa Maggiore e Costa, I, Torino, 2001, 597 ss., ove ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, al quale adde SPIOTTA, Commento sub art. 202,in Comm. Jorio, II, Bologna, 2007, 2660–2661.
11
Fra l’altro, in tal senso si era pronunciata anche la Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 13 marzo 1965, n. 425, in Foro. it., 1965, I, 618.
12
Il tema è ampiamente trattato da BONFATTI, cit., 1272 ss.; ID., La liquidazione coatta delle banche e degli intermediari in strumenti finanziari. Presupposti soggettivi ed oggettivi,
Milano, 1998, 24 ss. Si vedano, da ultimi, in senso favorevole
all’applicabilità della legge speciale anche alle banche di fatto,
BONFATTI – FALCONE, sub Art. 2, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro – Sandulli – Santoro, I, Torino, 2010, 42 ss.
13
Per vero, questa corrente giurisprudenziale è stata inaugurata, ancor
prima della emanazione del Tub, da Trib. Roma, 20 febbraio 1992, in Banca borsa, 1993, II, 69, con nota fortemente critica di CAPRIGLIONE, Banca
di fatto: nuovo orientamento della giurisprudenza e riflessioni sul
ruolo istituzionale delle autorità di controllo bancario, e di RATTO, Mancanza di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e disciplina dell’insolvenza, cui hanno fatto seguito, fra le altre, Trib. Brindisi, 16 aprile 1996, ivi, 1997, 97, con nota adesiva di SANTORO, Questioni in tema di banca di fatto; Trib. Venezia, 16 ottobre 1997, ivi, 1999, II, 227, con nota adesiva di CRISCUOLO, Il fallimento della “banca di fatto”; Trib. Brindisi, 15 luglio 1999, in Fallimento, 2000, 1039, con nota di PELLICCIA, Banca di fatto e fallimento. La giurisprudenza di merito si consolida; Trib. Firenze, 20 marzo 2003, in Soc., 2004, con nota di COLAVOLPE.
14
La nazionalità di una banca è determinata dallo Stato in cui essa ha
sede legale e amministrazione centrale, per le banche comunitarie,
ovvero dallo Stato in cui ha sede legale, per le banche extracomunitarie
(art. 1, 2° comma, lett. b) e c), Tub).
15
È vero che la norma precisa che le regole della liquidazione coatta
amministrativa si applicano alle succursali extracomunitarie “in quanto
compatibili”, ma problemi di compatibilità non sembrano sorgere in
rapporto alla eventuale dichiarazione giudiziale di insolvenza ed alle
conseguenze che da essa derivano: cfr. VELLA, Commento sub art. 95, in Comm. Belli – Contento – A. Patroni Griffi – Porzio – Santoro, II, Bologna, 2003, 1623 ss.; nonché, per l’analoga questione con riferimento all’amministrazione straordinaria, GALANTI, Commento sub art. 77, in Comm. Capriglione al Tub, 2a ed., I, Padova, 2001, 598.
16
Ai sensi della definizione contenuta nell’art. 1, 1° comma, lett. g–bis), Tub, “Stato d’origine” è lo Stato comunitario che ha concesso l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria.
17
Non trova, dunque, applicazione analogica in materia di insolvenza
delle banche comunitarie l’art. 9, 3° comma, l. fall., che consente che
venga dichiarato il fallimento in Italia dell’imprenditore, che abbia la
sede principale dell’impresa all’estero, anche nel caso in cui la
sentenza di fallimento sia già stata pronunciata all’estero, ma nemmeno
il Regolamento CE 1346/2000 del 29 maggio 2000, pur finalizzato a
dettare regole uniformi per le procedure di insolvenza nei paesi
comunitari, poiché l’art. 1, 2° comma, del Regolamento medesimo ne
esclude l’estensione al settore creditizio.
18
Così, DI FONZO, La disciplina comunitaria delle crisi bancarie: la direttiva 2001/24/CE, in www.archivioceradi.luiss.it/documenti/.../impresa/.../difonzo_crisi.pdf ecc., 6 e 14 ss.; ma si veda anche GALLETTI, L’insolvenza transfrontaliera nel settore bancario, in Banca borsa, 2006, I, 546 ss.
19
Cfr., fra gli altri, SANDULLI, Commento sub art. 5, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2006, 98 ss; FORTUNATO, La liquidazione coatta delle banche dopo il Testo Unico: lineamenti generali e finalità, in Banca borsa, 1994, I, 772; TERRANOVA, L’insolvenza delle banche, ora in Stato di crisi e stato di insolvenza, Torino, 2007, 91 ss., e, in giurisprudenza, Trib. Potenza, 13 luglio 2000, in Banca borsa, 2002, II, 500, con nota di CARDUCCI ARTENISIO, L’accertamento giudiziale dell’insolvenza di banca in liquidazione coatta amministrativa.
20
Si veda, di recente, Cass., 21 aprile 2006, n. 9408, in Banca borsa, 2008, II, 329, con nota redazionale di CARRELLI, ed in Fallimento, 2006, 1279, con nota di BARBIERI, Accertamento dello stato d’insolvenza dell’impresa bancaria; Trib. Frosinone, 15 maggio 1998, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1999, II, 101, con nota adesiva di CAPPIELLO, Lo stato di insolvenza dell’impresa in rapporto alla specificità dell’attività bancaria ed in Banca borsa, 2000, II, 317, con nota adesiva di CERCONE, L’insolvenza delle banche tra nuove questioni processuali e consolidati indirizzi di merito; nonché GALANTI, L’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza, in Comm. Ferro – Luzzi, Castaldi, II, Milano, 1996, 1390. In tema, cfr., anche, BELLÈ, Commento sub Art. 195,
cit., 1526, il quale rammenta che, per quel che concerne la crisi delle
imprese assicurative, proprio in materia di accertamento giudiziale
dell’insolvenza, l’art. 248, 3° comma, cod. ass., ha introdotto una
nozione più ampia di insolvenza, che comprende anche il deficit patrimoniale irreversibile e di eccezionale gravità.
Al contrario, l’entità del dissesto non ha alcuna rilevanza oggettiva, ai fini della dichiarazione di fallimento, se non quella di escludere dalla procedura, ex
art. 15, ultimo comma, l. fall.,le imprese aventi debiti scaduti e non
pagati per un ammontare al momento fissato in trentamila Euro. Come è
stato giustamente osservato (CAVALLI, I presupposti soggettivi del fallimento, in AMBROSINI – CAVALLI – JORIO, Il fallimento, in Tratt. Cottino, XI, Padova, 2009, 56), il livello dell’esposizione debitoria, di cui all’art. 1, 2° comma, lett. c),
l. fall., non ha alcuna rilevanza in sé, né come indizio di insolvenza,
ma funge piuttosto da indicatore delle dimensioni dell’impresa.
21
BONFATTI – FALCONE, sub Art. 82, cit., 1345 ss.
22
Ai commissari liquidatori si reputa sia affidata la tutela degli
interessi dei creditori, ai quali, pertanto, la norma non riconosce in
questa fase alcuna legittimazione ai fini dell’accertamento giudiziale
dell’insolvenza. Così, GALANTI, L’accertamento giudiziale, 1393.
23
Inspiegabilmente, ma non diversamente da quanto prevedeva l’art. 195,
1° comma, e tuttora prevede l’art. 202, 1° comma, l. fall., fra i
soggetti legittimati non vi è la banca insolvente. Su tale carenza si
vedano, per tutti, le vivaci critiche di BELVISO, cit., 77, nt. 59.
24
Ai sensi del settimo comma della disposizione abrogata, il Tribunale
dichiarava d’ufficio l’insolvenza soltanto qualora nel corso
dell’amministrazione controllata o del concordato preventivo si fossero
verificate le condizioni, che potevano dar luogo ad una dichiarazione di
fallimento. Cfr. DESIDERIO, cit., 647 ss.
25
Secondo GALANTI, Riforma del diritto fallimentare e procedure di crisi delle imprese finanziarie, in Fallimento,
2006, 1119, limitatamente al riconoscimento della legittimazione attiva
in capo all’autorità di controllo la norma sarebbe applicabile in via
suppletiva anche alle banche, ai sensi dell’art. 80, 6° comma, Tub.
26
Essa coincide anche con quanto tuttora dispone l’art. 3, 1° comma, d.
lg. n. 270/1999 (per il quale parimenti la sentenza dichiarativa
dell’insolvenza, propedeutica all’ammissione all’amministrazione
straordinaria, può essere emessa per iniziativa dei creditori e del
pubblico ministero, oltre che d’ufficio dal Tribunale), che pone,
quindi, analoghi problemi interpretativi. In tema, si veda, M. BIANCA, Il procedimento di dichiarazione dello stato di insolvenza, in COSTA, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Torino, 2008, 62.
27
Cfr. PATTI, La dichiarazione dello stato di insolvenza e la dichiarazione di fallimento: prassi, questioni dibattute, novità legislative, in Fallimento, 2001, 245 ss.
28
Per le quali, si veda, recentemente, CAVALLI, La dichiarazione di fallimento, in AMBROSINI – CAVALLI – JORIO, Il fallimento, in Tratt. Cottino, XI, Padova, 2009, 152 ss.
29
Si rammenti che, per opinione prevalente, l’istanza non deve essere
indirizzata direttamente al Ministro, bensì alla Banca d’Italia, alla
quale spetta in via esclusiva di decidere se proporre al Ministro la
procedura di liquidazione coatta amministrativa. V., per tutti,
BONFATTI, cit., 1313 ss.
30
Cfr., infra, par. 7.
31
Così, MONTANARO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009, 191.
32
In passato era assai controverso se il pubblico ministero fosse
titolare di un potere generalizzato di iniziativa ovvero se tale potere
fosse, ed in che misura, tipizzato. Secondo la prima tesi, ampiamente
sostenuta dalla giurisprudenza, il pubblico ministero era titolare di un
potere di carattere generale, che traeva fondamento dalla previsione di
cui all’abrogato art. 6 l. fall., consistente nella facoltà di
effettuare quella che si riteneva fosse una mera “segnalazione”, in
senso tecnico, al Tribunale competente, il quale poteva, poi, procedere a
dichiarare il fallimento d’ufficio; ad esso si aggiungeva il
potere/dovere esercitare una vera e propria azione (pur se di natura
prettamente processuale) esclusivamente in presenza delle
situazioni specificamente menzionate dal previgente art. 7 (ed ora
sostanzialmente recepite dall’art. 7, n. 1, l. fall., con la sola
varante dell’inserzione della “irreperibilità” fra le fattispecie
sintomatiche dell’insolvenza), a fronte delle quali l’iniziativa del
pubblico ministero per la dichiarazione di fallimento costituiva
un’attività necessitata. In giurisprudenza, cfr., fra le altre, Cass., 5
dicembre 2001, n. 15407, in Foro it., 2002, I, 374; per la dottrina, si vedano, invece, DIMUNDO, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, in Diritto fallimentare, coordinato da Lo Cascio, Milano, 1996, 266; PACCHI PESUCCI, La dichiarazione di fallimento, in Diritto fallimentare, coordinato da Maffei Alberti, Bologna, 2002, 73; ad essi adde PATTI, La dichiarazione dello stato di insolvenza,
250, secondo il quale il pubblico ministero avrebbe avuto altresì la
facoltà di attivarsi, se avesse ricevuto la notizia dell’insolvenza da
un altro giudice, che l’avesse rilevata nel corso di un processo civile
del quale il pubblico ministero fosse parte necessaria.
La dottrina prevalente, invece, pur propendendo per una lettura
restrittiva della norma, offriva un ampio ventaglio di interpretazioni,
che vedevano collocarsi ai due estremi opposti i sostenitori della tesi
secondo cui l’iniziativa del pubblico ministero presupponeva che già
fosse stata proposta un’azione penale e, per di più, che nel corso di
questa fossero emersi i fatti “sintomatici” indicati nell’art. 7 l.
fall. (così, ad esempio, BONGIORNO, La dichiarazione di fallimento, in Le procedure concorsuali. Il fallimento,
a cura di Ragusa Maggiore e Costa, Torino, 1997, 286 ss.) e coloro che,
invece, reputavano sufficiente la mera sussistenza delle condizioni per
l’esercizio dell’azione penale (JORIO, Le crisi d’impresa. Il fallimento, in Tratt. Iudica – Zatti, Milano, 2000, 244). Per una dettagliata rassegna delle diverse opinioni si veda, comunque, D’AQUINO, I poteri del PM nella dichiarazione di fallimento, nota a Trib. Napoli, 6 novembre 2002, in Fallimento, 2003, 1102.
L’opinione maggiormente condivisa attualmente – pur forzando
consapevolmente la lettera della norma, che sembra considerare come
ipotesi autonome l’emergenza della situazione di insolvenza nel corso di
un procedimento penale ovvero il verificarsi di una delle
fattispecie elencate nell’art. 7, n. 1, seconda parte, l. fall. – pare
orientata a ritenere che il pubblico ministero sia legittimato proporre
istanza di fallimento soltanto nel caso in cui l’insolvenza si evidenzi
durante un processo penale e ad attribuire natura meramente
esemplificativa all’elencazione delle cosiddette figure sintomatiche
dell’insolvenza. Così, fra gli altri, MONTANARO, cit., p. 101 ss.; CAVALLI, La dichiarazione,
p. 160. Sopravvive, tuttavia, una dottrina minoritaria, che tuttora
riconosce al pubblico ministero un generalizzato potere di iniziativa:
v., BONFATTI – CENSONI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011, 55; CAIAFA, Nuovo diritto delle procedure concorsuali, Padova, 2006, 198; PACILEO, Il pubblico ministero nel processo civile, in Cass. pen., 2006, 3411.
33
La riforma della legge fallimentare ha costituito l’occasione non
soltanto per eliminare la dichiarazione officiosa di fallimento (sulla
quale si veda, per tutti, BASSI, Il fallimento di ufficio, in Giur. comm.,
2001, I, 631 ss.), assai discussa anche dopo che la Corte
costituzionale ne aveva riconosciuta la legittimità con la sentenza 15
luglio 2003, n. 240 (pubblicata, fra l’altro, in Fallimento, 2003, 1049, con nota critica di LO CASCIO, La dichiarazione di fallimento di ufficio e la pretesa illegittimità costituzionale della disciplina normativa, ed in Giur. it., 2005, 1198, con nota favorevole di FAUCEGLIA, Sul fallimento d’ufficio: poteri d’iniziativa e tutela del debitore),
ma anche per risolvere alcune controversie originate dalla previgente
disciplina. Infatti, in passato era assai dubbio se il Tribunale potesse
dichiarare il fallimento d’ufficio soltanto qualora avesse ricevuto
segnalazione da un giudice che avesse rilevato l’insolvenza di una delle
parti nel corso di un procedimento civile, ai sensi dell’abrogato art. 8
l. fall., ovvero quando ne avesse avuto notizia da una “fonte
ufficiale” (peraltro, di non agevole identificazione) o, ancora, se in
qualunque modo fosse venuto a conoscenza del dissesto. Per una rassegna
delle tesi sommariamente riassunte e della dottrina che le ha sostenute,
si veda FABIANI, Commento sub artt. 6–7, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2006, 123.
34
A favore del carattere discrezionale dell’iniziativa del pubblico
ministero, “potendo e dovendo questi valutare l’adeguatezza della
segnalazione ricevuta”, si esprimono, fra gli altri, CLEMENTE – GISONDI,
Commento sub art. 7, in Comm. Nigro–Sandulli, Torino, I, 2006, p. 33.
35
Non è più richiesto, dunque, né che l’insolvente sia parte del processo, né che l’insolvenza emerga nel corso di un processo di cognizione, essendo il termine giudizio così ampio da comprendere ogni genere di procedimento civile. Così, da ultimi, MONTANARO, cit., 194 – 195; DONZI, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento: artt. 6 e 7 l. Fall., in Tratt. Fauceglia – Panzani, I, Torino, 2009, 120.
36
Cfr., rispettivamente, FABIANI, cit., 134, e CAVALLI, La dichiarazione,
166, ambedue con riferimento allo speculare problema che si pone in
materia di amministrazione straordinaria, a fronte di quanto prevede
l’art. 3, 1° comma, d. lg. n. 270/1999.
37
V., infatti, BELLÈ, Commento sub art. 194,in Comm. Ferro, Padova, 2007, 1503 ss.
38
Così, M. BIANCA, cit., 63 ss., in riferimento, però, all’art. 3 d.lg. n. 270/1999.
39
BELLÈ, Commento sub art. 195, 1530; nonché, con riguardo al procedimento di amministrazione straordinaria, STASI, L’amministrazione straordinaria, in Tratt. Fauceglia – Panzani, III, Torino, 2009, 2023.
40
Sicché non può essere più considerata valida la tesi, in precedenza
espressa in termini generali, secondo la quale “là dove la legge lascia
spazio all’iniziativa del giudice, predispone antecedentemente un
sistema di coinvolgimento di informazioni all’ufficio giudiziario”.
Così, BONSIGNORI, Commento sub art. 2907, in Della tutela giurisdizionale dei diritti, I – Disposizioni generali,in Comm. Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1999,26 ss., il quale riporta, aderendovi, l’opinione di LA CHINA, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Tratt. Rescigno, XIX, Torino, 1986, 26 ss.
41
Sul carattere eccezionale dell’iniziativa officiosa, in deroga al
principio della correlazione fra titolarità del diritto e titolarità
dell’azione, si veda, per tutti, BONSIGNORI, Commento sub art. 2907, 23 ss.
42
C. Cost., 15 luglio 2003, n. 240. V., supra, nt. 34.
43
La Consulta ha posto fine, così, all’annosa questione concernente la
rilevanza del “fatto notorio” ai fini della dichiarazione officiosa del
fallimento ed ha altresì escluso il carattere di fonte qualificata
dell’elenco dei protesti che, ai sensi dell’abrogato art. 13 l. fall.,
veniva comunicato con cadenza quindicinale al Presidente del Tribunale.
44
In altri termini, come è stato ben detto, la legittimità della
pronuncia del Tribunale deriva “dalla esternità della iniziativa alla
pronuncia d’ufficio, nel senso che non può essere il tribunale ad andare
alla ricerca delle imprese insolventi, ma l’autorità giudiziaria può
aprire il procedimento quando riceva una segnalazione qualificata”.
Così, FABIANI, cit., 127.
45
FABIANI, cit., 158.
46
Contra LO CASCIO, cit., 1056, secondo il quale anche
in questo caso la sentenza interverrebbe per iniziativa di parte,
benché la posizione processuale di questa sia viziata.
47
A seguito della soppressione del fallimento d’ufficio e del
corrispondente ampliamento dei poteri di iniziativa del pubblico
ministero, la dottrina finora prevalente – confortata da quanto
conformemente è espresso nella Relazione – ha
ritenuto che legittimamente la segnalazione dell’insolvenza al pubblico
ministero possa provenire dallo stesso Tribunale fallimentare,
impossibilitato a provvedere per difetto di legittimazione o desistenza
del creditore istante. Cfr., per tutti, DONZI, cit., 120; CAVALLI, La dichiarazione, 161, con ulteriori riferimenti bibliografici in nota.
Una recente sentenza della Suprema Corte (Cass., 26 febbraio 2009, n. 4632, in Fallimento, 2009, con nota di FERRO, Istruttoria prefallimentare e desistenza del ricorrente creditore: il giudice non può segnalare l’insolvenza del debitore; ma ancora più di recente si veda nello stesso senso Cass., 21 aprile 2011, n. 9260, in Gius. civ. Mass., 2011, 649), a conferma di App. Milano, 29 novembre 2007 (in Foro it.,
2008, I, 621, con nota di FABIANI), ha negato, però, tale possibilità,
proprio perché in tal modo risulterebbero compromesse l’imparzialità e
l’estraneità del giudice. La pronuncia non sembra ad oggi aver riscosso
il consenso dei primi commentatori (FILIPPI, Contrasti su… poteri dei creditori e ruolo del pubblico ministero,
nota a Trib. Tivoli, 6 aprile 2009, App. Napoli, 21 gennaio 2009, Trib.
Salerno, 8 aprile 2009, Trib. Tolmezzo, 14 ottobre 2008, in Giur. di Merito, 2009, 1568 ss.), né di parte della giurisprudenza di merito (Trib. Tivoli, 6 aprile 2009, cit.; nel senso indicato dalla Suprema Corte, si veda, invece, Trib. Salerno (decr.), 8 aprile 2009).
48
Al momento dell’entrata in vigore del Tub l’applicazione del diritto
penale fallimentare anche in materia bancaria era un dato pacifico, in
ragione del rinvio tuttora contenuto nell’art. 82, ultimo comma,
all’art. 203 l. fall. per la determinazione degli effetti conseguenti
alla dichiarazione giudiziale di insolvenza. Infatti, originariamente,
il secondo comma dell’art. 203 prevedeva l’applicabilità ai soci a
responsabilità illimitata, agli amministratori, ai direttori generali,
ai liquidatori e ai componenti degli organi di vigilanza degli artt.
216–219 e 223–225 l. fall.;questa norma, però, è stata abrogata
dall’art. 99, 1° comma, d.lg. n. 270/1999, il cui secondo comma ha
contemporaneamente sostituito il previgente art. 237 l. fall. ed ha
allocato in esso la disciplina penale della liquidazione coatta
amministrativa. Attualmente, dunque, l’equiparazione fra la
dichiarazione giudiziale di insolvenza e la dichiarazione di fallimento
ai fini dell’applicabilità delle disposizioni penali fallimentari è
sancita dall’art. 237, 1° comma, l. fall. Non v’è dubbio, comunque, che
le suddette disposizioni continuino a trovare applicazione anche nel
settore bancario, dal momento che è, generalmente riconosciuto che la
nuova collocazione sia stata ispirata esclusivamente da esigenze di
riordino sistematico della materia. Cfr. SPIOTTA, Commento sub art. 203, in Comm. Jorio, II, Bologna, 2007, 2668.
49
Cfr. artt. 73–74 ord. giud.
50
L’assenza di una regolamentazione specifica consente, dunque, di
riproporre nell’ambito della disciplina della liquidazione coatta delle
banche la tesi che, in passato, riconosceva al pubblico ministero un
potere generalizzato di promuovere la dichiarazione di fallimento in
rapporto all’esercizio dell’azione penale (v. supra, nt. 33).
51
Ove si ritenga di dover dare risposta positiva al quesito, non
dovrebbero esserci più dubbi sulla circostanza che l’attività del
pubblico ministero non possa essere qualificata come mera “segnalazione”
rivolta al Tribunale (cfr. Cass., 27 novembre 2002, n. 15018, in Foro it.,
2002, 374, con nota redazionale adesiva sul punto di FABIANI), ma sia
esercizio di una vera e propria azione, benché di natura esclusivamente
processuale, a seguito del quale egli assume la veste di parte,
quantomeno formale, del processo. Questa opinione, già in passato
ampiamente sostenuta soprattutto dagli studiosi del diritto processuale
(cfr. MOROZZO DELLA ROCCA, Pubblico ministero (dir. proc. civ), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 1078; MANDRIOLI, Diritto processuale civile,
I, 20a ed., Torino, 2009, 435 s.), è ora confermata dall’attuale
versione dell’art. 22, 2° comma, l. fall. Tale norma – che, come si
vedrà di seguito trova applicazione anche nell’ambito della liquidazione
forzata delle banche – ha posto fine alle incertezze di un’oscillante
giurisprudenza (per la quale v. MARELLI, Commento sub art. 22, in Comm. Jorio,
I, Bologna, 2007, 414, nt. 14), espressamente legittimando il pubblico
ministero richiedente a proporre reclamo avverso il decreto che abbia
rigettato la domanda di fallimento e riconoscendogli in tal modo
indirettamente la titolarità di un diritto di azione, anche se di
contenuto meramente processuale. Così, fra gli altri, CAVALLI, La dichiarazione, 158.
52
Sulla tassatività delle fattispecie di esercizio dell’azione del
pubblico ministero nel processo civile, cfr., per tutti, VELLANI, Pubblico ministero in diritto processuale civile, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 142.
53
JORIO, cit., 244–245.
54
GRASSO, Pubblico ministero. II. Diritto processuale civile, in Enc. Giur, XXV, Roma, 1991, 3; PACILEO, cit., in Cass. pen., 2006, 3411.
55
BONSIGNORI, Della tutela giurisdizionale, 25.
56
Probabilmente la ragione per la quale tale urgenza non è stata
avvertita in maniera particolarmente pressante dal legislatore è dovuta
alla prudenza ed alla parsimonia con la quale tradizionalmente i
pubblici ministeri hanno fatto uso dei loro poteri di inziativa.
57
Su tale pacifica nozione si veda BONGIORNO, Commento sub art. 9–9–ter, in Comm. Jorio, I, Bologna, 2007, 174, con ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza in nota.
58
Così, BONFATTI – FALCONE, cit., 1349 s.
59
DESIDERIO, cit., 644.
60
In tal senso, v. TUNISINI COTTAFAVI, Commento sub art. 95,in Comm.Capriglione al Tub, 2a ed., I, Padova, 2001, 743.
61
Cfr. CAVALLI, La dichiarazione, 168 ss., il quale
ricostruisce l’evoluzione della interpretazione giurisprudenziale, che,
ai fini della determinazione della competenza territoriale, in un primo
momento ha ritenuto irrilevanti gli spostamenti di sede successivi
all’inizio della procedura e, in seguito, ha esteso il principio anche
ai trasferimenti significativamente vicini a tale data. In senso
contrario al testo, si veda, però, GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, 1119.
62
L’audizione dei rappresentanti legali è ovviamene finalizzata a
garantire il diritto costituzionale alla difesa, benché si sia ritenuto
che, in concreto, essa sortisca soltanto il limitato effetto di
assicurare un “contraddittorio formale”. Così, DESIDERIO, cit., 646.
63
Sulla controversa funzione dell’audizione della Banca d’Italia si vedano BONFATTI – FALCONE, sub Art. 82, cit, 1352, e DESIDERIO, op. ult. cit., 645, ove ulteriori riferimenti di dottrina.
64
BONFATTI – FALCONE, cit., 1352.
65
Si noti che l’identico identico problema si pone nell’ambito della
legge fallimentare per i richiami all’art. 195 contenuti nell’art. 202,
rimasto invariato, nonostante che gli schemi predisposti dal Ministero
della giustizia e dal Ministero dell’economia nel luglio 2005, ne
modificassero il testo, coordinandolo con la nuova formulazione
dell’art. 195, come ricorda SPIOTTA, Commento sub art. 202,
cit, 2661, nt. 20, la quale pacificamente adegua il rinvio alla
disciplina vigente, al pari della scarsa dottrina, che finora ha
affrontato il problema. Cfr., anche, PALUCHOWSKI, Commento sub art. 202, in Cod. Pajardi, 6a ed., a cura di Bocchiola e Paluchowski, Milano, 2009, 1889; DE VITIS, Commento sub art. 202, in Comm. Nigro – Sandulli, II, Torino, 2006, 1171; TEDESCHI, cit., 586; BELLÈ, Commento sub art. 194, 1504.
66
Sostanzialmente nel senso del testo, si veda GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, 1117; nonché BELLÈ, Commento sub art. 194, 1504.
67
Si noti che tanto il primo, quanto il secondo comma dell’art. 82 Tub
prevedono che la sentenza deve essere emessa dal tribunale in camera di
consiglio, mentre la precisazione non è più contenuta nell’art. 16 l.
fall., relativamente alla sentenza dichiarativa di fallimento.
L’opinione prevalente, però, attribuisce valenza meramente formale
all’elisione, in quanto la natura camerale del procedimento è ora
espressamente dichiarata dall’art. 15, 1° comma, l. fall., sicché la
sentenza non potrebbe che essere emanata in camera di consiglio. Così,
D’ORAZIO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento, in La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, 117; ma si veda, anche, FILIPPI, Il d.lg. n. 169 integra e corregge la disciplina del fallimento e delle procedure concorsuali. Si resta in attesa della riforma delle disposizioni penali, in Giur. di Merito, 2007, 3096.
68
La disposizione, prima contenuta nell’art. 195, 1° comma, ultima
parte, l. fall., è ora collocata, con formulazione immutata, nel secondo
comma della stessa norma.
69
Discusso è se, nel caso delle banche, la comunicazione debba essere
effettuata al Ministro dell’Economia oppure – come con qualche
perplessità prospetta COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, 807 – alla Banca d’Italia, affinché promuova l’emanazione del decreto ministeriale di liquidazione.
70
Per la quale, si veda, per tutti, CAVALLI, La dichiarazione, 214.
71
Con modifica introdotta dal d. lg. n. 169/2007 l’espressione reclamo, ha sostituito l’originario termine appello.
Parte della dottrina ritiene che non si tratti di una mera variante
lessicale, ma che si sia inteso consentire lo svolgimento di un giudizio
integralmente devolutivo nel quale possano essere esperite nuove prove
senza alcuna decadenza o limitazione. Così, SANTANGELI, Le modifiche introdotte dal decreto correttivo 169/2007 al processo per la dichiarazione di fallimento ed alla fase dell’accertamento del passivo, in Dir. fall., 2008, I, 160 ss.; ma si veda, anche, CHIMENTI, La sentenza dichiarativa i fallimento. I mezzi di gravame. Revoca del fallimento: effetti, in Tratt. Fauceglia – Panzani,
I, Torino, 2009, 249 ss. Reputa, invece, che il reclamo costituisca lo
strumento prescelto dal legislatore come mezzo di impugnazione nei
procedimenti camerali RUSSO, Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, coordinato e diretto da Apice, I, Torino, 2011, 133.
72
V., C. BAVETTA, cit., 662 ss; nonché GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, 1118, il quale, per vero, sembra riferirsi alla emanazione, e non alla revoca, della sentenza di accertamento dell’insolvenza.
73
Cfr., per tutti, CAVALLI, La dichiarazione, 233 ss. Si tratta
in realtà di un rinvio, che, se fosse stato correttamente collocato
nell’ambito del procedimento di liquidazione coatta, avrebbe dato
dignità normativa ad una conclusione alla quale già da tempo dottrina e
giurisprudenza sono pervenute. Dal momento che mancava e tuttora manca
nella legge fallimentare e nella legge bancaria una disciplina della
revoca del provvedimento di liquidazione, si potrebbe essere indotti a
ritenere che l’eliminazione di questo travolga tutti gli effetti già
prodotti; è, invece, opinione assolutamente prevalente e condivisibile
che trovi applicazione in via analogica la disposizione dettata in
materia di fallimento relativa alla conservazione degli atti
legittimamente posti in essere dagli organi della procedura. Cfr. C.
BAVETTA, cit., 664 ss.; Cass., 3 ottobre 2005, n. 19293 (ined.).
74
Ancor più incerta – non diversamente da quanto avviene in caso di revoca del fallimento (cfr. CAVALLI, La dichiarazione,
240 ss.) – è la individuazione del soggetto su cui gravano le spese
della procedura. Ad esempio, per le indennità spettanti ai componenti
degli organi, che, ai sensi dell’art. 81, 4° comma, Tub, sono
determinate dalla Banca d’Italia in base ai criteri da essa stessa
stabiliti, non è scontato che, in caso di revoca, trovi applicazione
anche l’ultima parte della norma, che prevede che esse siano a carico
della liquidazione.
75
E v., infatti, GALANTI, Riforma del diritto fallimentare, cit, 1118.
76
L’art. 33 l. fall. è stato oggetto di ulteriori modifiche di ordine
formale ad opera del d. lg. n.169/2007 (su di esso si veda ABETE, Commento sub art. 33, in Comm. Jorio,
I, Torino, 2006, 582 ss.), e sembra che stia per essere ulteriormente
variato, nei termini nei quali verrà convertito in legge l’art. 17, 1°
comma, lett. c), d. l. n. 179/2012, senza, però, non dovrebbe mutare nella sostanza quanto si sostiene nel testo.
77
Che il rinvio sia alla normativa vigente è pacificamente ammesso da tutti i commentatori; cfr., per tutti, DE VITIS, Commento sub art. 203, in Comm. Nigro – Sandulli, II, Torino, 2006, 1172 s.
78
Una volta che sia stata dichiarata giudizialmente l’insolvenza, è
opinione diffusa che, in caso di inerzia dell’autorità competente, gli
interessati possano adire gli organi giurisdizionali amministrativi al
fine di ottenere una condanna per omissione di atti di ufficio. Cfr.,
fra molti, BONSIGNORI, Processi concorsuali minori, in Tratt. Galgano, XXIII, Padova, 1997, 523.
Diverso è, ovviamente, se la liquidazione coatta sia stata avviata
senza che sia stata dichiarata giudizialmente l’insolvenza, dal momento
che l’accertamento giudiziale ha carattere eventuale, in quanto la
liquidazione forzata può essere disposta anche su presupposti
differenti. Tuttavia, anche in questo caso deve ritenersi che i
commissari liquidatori e il pubblico ministero, che ritengano
l’insolvenza sussistente, siano tenuti ad attivarsi tempestivamente per
ottenere la sentenza dichiarativa dell’insolvenza (che per le banche può
anche essere pronunciata d’ufficio dal Tribunale) e che siano
responsabili per i danni cagionati alla procedura da eventuali ritardi.
Non esiste, però, un termine massimo oltre il quale l’insolvenza non può
più essere dichiara, avendo ritenuto la Corte Costituzionale che sia
inapplicabile alla fattispecie in esame il termine di cui all’art. 10 l.
fall. Cfr. C. Cost., 22 luglio 2005, n. 301, in Banca, borsa, 2007, II, 269, con nota di DE VITO, Il dies a quo per la dichiarazione dello stato di insolvenza delle banche successiva alla liquidazione coatta nell’interpretazione della Corte costituzionale, e in Fallimento, 2006, 17, con nota di PROTO, L’accertamento
dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta
amministrativa e la decorrenza del termine di cu all’art. 10 l. fall. nella interpretazione della Corte Costituzionale.
79
Così, esplicitamente, Cass., 24 luglio 2007, n. 16383, in Giust. civ.,
2008, 696; ma il principio emerge implicitamente anche in alcune
sentenze – fra le quali C. Cost., 31 ottobre 2007, n. 362, in Giust. civ.,
2008, 320 – che hanno affrontato la questione in relazione a situazioni
nelle quali l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza è
intervenuto successivamente al decreto di apertura del procedimento
(cfr., ad esempio, Cass., 24 luglio 2007, n. 16384, in Guida al dir.,
2007, f. 39, 68); nonché da alcune sentenze in materia di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese, nella quale la
sentenza dichiarativa dell’insolvenza è sempre anteriore all’inizio del procedimento: v. Cass., 9 novembre 2007, n. 23398, in Giust. civ. mass., 2007, 11, in linea con l’interpretazione inaugurata da Cass., S. U., 15 giugno 2000, n. 437, in Corr. giur., 2000, 1489. Isolata appare la tesi sostenuta da Cass., 20 giugno 2006, n. 14279, in Fallimento, 2007, 307, con nota di BARBIERI, I termini delle azioni revocatorie nella l.c.a., la quale, muovendo dal problema dell’individuazione del dies a quo per il decorso del periodo sospetto, perviene ad affermare che “è dalla dichiarazione di insolvenza che decorre in ogni caso il termine di prescrizione”.
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Cfr. Cass., 20 giugno 2006, n. 14279, cit.; per l’analogo problema in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, v. Cass., 9 aprile 2008, n. 9177, in Giust. civ. mass.,
2008, 547. In precedenza la S.C. aveva, però, sostenuto la diversa
tesi, secondo la quale il decorso del periodo sospetto doveva essere
computato dalla sentenza di accertamento dell’insolvenza nel caso in cui
questa fosse precedente al decreto di liquidazione. Così, Cass., 14
giugno 1999, n. 5858, in Corr. giur., 2000, 211, con nota di Gio. TARZIA, Revocatoria nella liquidazione coatta amministrativa e computo del periodo sospetto, ed in Fallimento, 2000, 835, con nota di COLOMBINI, Prescrizione della revocatoria fallimentare in sede di l.c.a.
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