Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o documenti relativi a operazioni inesistenti e assenza di soglie di punibilità: la norma è costituzionalmente legittima?
04 ottobre 2016 -
Il corpus
dei reati tributari si compone di due sottocategorie normative, quella
dei delitti in materia di dichiarazione (Titolo I) e quella dei delitti
in materia di documenti e pagamento di imposte (Titolo II). Nel panorama
delle diverse fattispecie incriminatrici che trovano cittadinanza
all’interno dei delitti in materia di dichiarazione, al reato di
dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti è riservato uno statuto peculiare – come emerge
già da una prima e rapida lettura della disposizione di cui all’articolo
2 – il quale si compendia nella circostanza che, a differenza di quanto
preveduto agli articoli 3, 4 e 5, l’operatività del delitto delineato
all’articolo 2 del Decreto Legislativo 74/2000 non è subordinata al superamento di alcuna soglia di punibilità:
ogniqualvolta il contribuente faccia uso di fatture o di altri
documenti per dichiarare passività inesistenti in una delle
dichiarazioni richiamate dalla norma, tale condotta fraudolenta assumerà
sempre rilevanza penale a prescindere dal quantum dell’imposta evasa.
Il sistema sanzionatorio degli illeciti tributari tra offensività ed extrema ratio: cenni.
La repressione degli illeciti tributari è
stata tradizionalmente affidata alla previsione tanto di sanzioni
amministrative, quanto di sanzioni penali, e la creazione di un doppio
livello di intervento ha sollecitato ampie riflessioni in ordine alle
modalità con le quali garantire un adeguato coordinamento tra
l’attivazione dello strumentario amministrativo e dell’arsenale penale:
ciò nella prospettiva di calibrare un meccanismo sanzionatorio ispirato a
un canone di proporzionalità della reazione ordinamentale dinanzi a
condotte che, pur incidendo sempre sull’interesse erariale alla corretta
percezione dei tributi, presentano di volta in volta un differente
indice di gravità [1].
Tenuto conto della diversa invasività
con cui le due tipologie sanzionatorie – penale e amministrativa –
incidono sulla sfera individuale, nonché dei fondamentali criteri
dell’offensività e della extrema ratio che dovrebbero guidare
il legislatore nelle scelte di politica criminale, la coerente
definizione dei rapporti tra sanzione amministrativa e sanzione penale
impone di restringere l’area di intervento di quest’ultima ai soli casi
connotati da un maggior grado di disvalore, ricorrendo invece alla
sanzione amministrativa nelle altre ipotesi [2].
In buona sostanza è questa la logica che
sottende all’introduzione delle soglie di punibilità nei reati
tributari: fermo restando che tutte le condotte evasive incidono
astrattamente sul medesimo bene giuridico (la corretta percezione dei
tributi), tuttavia non ogni evasione di imposta è concretamente idonea
ad arrecare un’offesa tale da giustificare il ricorso alla sanzione
penale. Di qui, l’utilizzo delle soglie di punibilità quale vero e
proprio metronomo della rilevanza penale delle evasioni commesse, come
si evince da una lettura complessiva degli interventi legislativi
succedutisi nel settore degli illeciti tributari, connotati da un
andamento “sinusoidale” del quantum della soglia: innalzando o
abbassando l’entità della medesima, il legislatore ha di volta in volta
ampliato o ristretto l’area di intervento del giure punitivo.
Va peraltro segnalato che la tendenza legislativa più recente – lungi dal riflettere quei canoni dell’offensività e dell’extrema ratio che
dovrebbero presiedere la materia penale – era orientata verso
l’abbassamento delle soglie di punibilità, con parallela enfatizzazione
della funzione general-preventiva della sanzione penale, intesa quale
unico fattore idoneo a indurre i contribuenti ad adempiere agli obblighi
tributari. L’allargamento del penalmente rilevante e il contestuale
restringimento dell’area di intervento amministrativa ha recato con sé
una forte sperequazione tra gravità delle condotte realizzate e severità
della sanzione irrogata, al punto che il legislatore stesso ha ritenuto
necessario intervenire per ricalibrare il sistema sanzionatorio degli
illeciti tributari [3].
Con l’articolo 8, comma 1, della Legge Delega n. 23 del 11/03/2014, il Governo è stato infatti chiamato a procedere a una «revisione
del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di
predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei
comportamenti», in particolare prevedendo «la punibilità con la
pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei
anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla
configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o
finalizzati alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa».
Il legislatore delegato ha quindi disposto – con il Decreto
Legislativo 24 settembre 2015, n. 158 – un generalizzato innalzamento
delle soglie di punibilità prevedute per i reati di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3: ferma la soglia sub a),
pari a 30.000 euro, l’innalzamento ha riguardato la soglia sub b),
elevata da 1 milione di euro a 1 milione e 500.000 euro), dichiarazione
infedele (articolo 4: da 50.000 euro a 150.000 euro per singola imposta
e, per la seconda soglia da 2.000.000 milioni a 3.000.000 di elementi
attivi sottratti all’imposizione), di omessa dichiarazione (articolo 5:
da 30.000 euro a 50.000 euro, anche nell’ipotesi di cui al comma 2), di
omesso versamento delle ritenute dovute o certificate (articolo 10-bis:
la soglia passa da 50.000 a 150.000 euro) e di omesso versamento Iva
(articolo 10-ter: la soglia sale da 50.000 a 250.000 euro). Invariate
sono rimaste le soglie di punibilità stabilite per i delitti di indebita
compensazione (articolo 10-quater) e di sottrazione fraudolenta al
pagamento di imposte (articolo 11). Infine, nessuna modificazione ha
toccato la struttura dei delitti preveduti agli articoli 2 e 8 del
Decreto Legislativo 74/2000, i quali continuano a non prevedere alcuna
soglia di punibilità.
Il delitto di dichiarazione
Il delitto di dichiarazione infedele ex
articolo 2 rappresenta (assieme al delitto “inverso” dell’articolo 8)
la fattispecie più gravemente sanzionata tra quelle contemplate dal
Decreto Legislativo 74/2000, in quanto alla severa cornice edittale
stabilita dal legislatore (pena della reclusione da un anno e sei mesi a
sei anni) si accompagna l’assenza di soglie minime di punibilità.
Tale assetto strutturale della
fattispecie è tradizionalmente giustificato argomentando dalla peculiare
modalità con la quale la condotta evasiva viene realizzata, ossia
mediante l’uso di fatture o altri documenti relativi ad operazioni
inesistenti: questo modus operandi del contribuente sarebbe
infatti idoneo a creare un grave ostacolo all’attività di accertamento
tributario svolta dall’Amministrazione finanziaria, sicché l’insidiosità
della condotta delineata all’articolo 2 sarebbe sintomatica di una
offensività intrinseca tale da legittimare il ricorso alla sanzione
penale, a prescindere dall’entità – anche irrisoria – dell’importo
evaso.
Tale discrasia tra «“disvalore di
evento” (che rimane confinato, tutt’al più, ad un semplice pericolo
concreto, richiamato dal dolo specifico di evasione) e “disvalore di
condotta” (insito nella connotazione fraudolenta del comportamento del
soggetto attivo)» trovava peraltro un parziale temperamento nell’originaria previsione del comma 3 dell’articolo 2, in virtù del quale «se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 154.937,07, si applica la reclusione da sei mesi a due anni»: pur senza intaccare la rilevanza esclusivamente penale della condotta tipizzata, il legislatore aveva così ridimensionato «la tensione con i principi di offensività e di sussidiarietà, determinata dalla scelta di prescindere […] da soglie di punibilità» [4].
Nel solco del generale inasprimento
sanzionatorio che ha ispirato il Decreto Legge 138/2011 (convertito con
modifiche con Legge 14 settembre 2011, n. 148), il comma 3 dell’articolo
2 (e analoga sorte ha investito il comma 3 dell’articolo 8) è stato
oggetto di intervento abrogativo da parte del legislatore. La volontà di
approntare un corredo sanzionatorio più intenso è stata dunque
realizzata mediante l’eliminazione dell’unico elemento normativo in
grado di “salvare” la disposizione da eventuali stimmati di
irrazionalità, sub specie della violazione dei principi di
offensività e sussidiarietà, specialmente laddove la fattispecie di cui
all’articolo 2 fosse stata comparata con quelle limitrofe degli articoli
3 e 4: nella stessa Relazione dell’Ufficio del Massimario era stato del
resto osservato che «l’eliminazione delle ipotesi attenuate non
potrà non esaltare la vistosa differenza esistente, quanto meno in
astratto, tra il trattamento sanzionatorio riservato al reato di
presentazione di una dichiarazione fraudolenta con utilizzazione di
fatture per operazioni inesistenti, anche di modestissimo importo e
quello previsto per il delitto di omessa dichiarazione»[5], la cui punibilità era all’epoca ancorata a un importo di evasione pari almeno a 30.000 euro.
L’assetto strutturale dell’articolo 2,
così come risultante dall’intervento del 2011, è rimasto pressoché
immutato a seguito della revisione del sistema sanzionatorio tributario [6],
di talché, considerato che per gli altri delitti preveduti dal Decreto
Legislativo 74/2000 è stato invece disposto un generalizzato
innalzamento delle soglie di punibilità – con parallela riduzione
dell’area di operatività dei delitti preveduti –, risulta ancor più
accentuata la severità del trattamento sanzionatorio, di matrice
esclusivamente penale, stabilito per il delitto di dichiarazione
fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti. Con l’ulteriore conseguenza che, in relazione a ipotesi di
evasione quantitativamente minimali, la fattispecie di cui all’articolo 2
rischia di porsi in tensione con i principi di offensività ed extrema ratio
dell’intervento penale, declinati nella prospettiva della necessaria
proporzionalità tra gravità dell’offesa ed severità della reazione
sanzionatoria.
La questione di legittimità costituzionale
Nel contesto delle sintetiche
osservazioni ora svolte si colloca la notizia della formulazione –
dinanzi al Tribunale monocratico di Venezia – di una questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 2, Decreto Legislativo 74/2000,
per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., nella parte in cui non prevede
alcuna soglia di punibilità, al superamento della quale ancorare
l’applicazione della sanzione penale.
La vicenda giudiziaria che ha occasionato la questione concerneva la contestazione del reato di dichiarazione fraudolenta ex
articolo 2 in capo a un soggetto che, in qualità di legale
rappresentante di una ditta individuale e avvalendosi di documenti
attestanti operazioni inesistenti, indicava nella dichiarazione dei
redditi per il 2008 costi passivi fittizi pari a circa 20 mila euro e,
nella dichiarazione dei redditi per il 2009, costi passivi fittizi per
una cifra di circa cinquecento euro. Considerato che la prima evasione,
quella del 2008, risultava ormai prescritta, l’intera contestazione ha
finito per orbitare attorno all’evasione del 2009.
La questione di legittimità trae origine
dalla sproporzione che intercorre tra l’esiguità dell’offesa arrecata
agli interessi erariali – compendiata in una evasione di poche centinaia
di euro – e la gravità delle conseguenze sanzionatorie previste
dall’ordinamento – consistenti nell’esclusiva attivazione del giure
punitivo –. Il difensore ritiene in particolare che la struttura ed il
trattamento sanzionatorio stabiliti per l’articolo 2 prestino il fianco a
una stimmate di irragionevolezza – ex articolo 3 Cost. – la
quale emergerebbe non solo in base alla mancanza di proporzionalità tra
offensività della condotta concreta e afflittività della sanzione
irrogata, ma altresì da un raffronto con la disciplina sanzionatoria
delineata nelle fattispecie incriminatrici limitrofe, tipizzate agli
articoli 3, 4 e 5 del Decreto Legislativo n. 74/2000.
In quest’ultima direzione, si ritiene
che il legislatore, nell’esercitare la propria discrezionalità
normativa, abbia ecceduto il perimetro della ragionevolezza poiché, pur a
fronte di fattispecie poste a presidio della medesima oggettività
giuridica – l’interesse erariale alla corretta percezione dei tributi –,
ha preveduto un corredo sanzionatorio estremamente diversificato
allorché si ragioni di evasioni di imposta di entità assolutamente
minimale. Prendendo a confronto i due delitti contemplati,
rispettivamente, agli articoli 2 e 3 del Decreto Legislativo 74/2000, il
proponente sottolinea un’evidente disparità: nel caso di indebito
risparmio di imposta complessivamente inferiore ai 30.000,00 euro
(soglia limite preveduta dall’articolo 3), l’evasione realizzata
mediante «altri artifici» comporta una violazione adeguatamente
sanzionabile in via solo amministrativa, laddove al contrario
un’evasione della medesima entità, commessa però «mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti»,
determina l’irrogazione della sola ed esclusiva sanzione penale. A
fronte di una lesione sostanzialmente omogenea dell’interesse statale
alla percezione dei tributi, non pare che le differenti modalità con le
quali è commesso il fatto presentino dei tratti differenziali così
marcati da poter giustificare una risposta sanzionatoria a tal punto
diversificata da parte dell’ordinamento. E l’irrazionalità della
discrasia sanzionatoria si palesa anche qualora si dovesse volgere
l’attenzione ai differenti requisiti quantitativi postulati
dall’articolo 4 – in relazione al quale la sanzione penale opera solo
qualora l’imposta evasa superi i 150.000 euro – o dall’articolo 5 –
ipotesi avente rilevanza penale solo laddove venga superata la soglia di
50.000 euro –.
Tale disparità di trattamento si
tradurrebbe in una violazione dell’articolo 3 Cost., nella misura in cui
l’articolo 2, non prevedendo una soglia minima di punibilità, rimette
in via esclusiva al giure punitivo – per definizione lo strumento
maggiormente afflittivo dell’intero repertorio sanzionatorio
ordinamentale – la repressione di fatti veicolanti una carica offensiva
modesta – se non del tutto irrisoria, come nel caso di specie – nei
confronti del bene giuridico tutelato, rinunciando all’attivazione della
meno afflittiva sanzione amministrativa, al contrario pur preveduta
agli articoli 3, 4 e 5 per evasioni di imposta inferiori –
rispettivamente – a 30.000 euro, 150.000 euro e 50.000 euro.
In una diversa prospettiva, la difesa
trae ulteriore argomento a sostegno dell’illegittimità costituzionale
dell’articolo 2 ragionando sui criteri di revisione del sistema
sanzionatorio tributario, così come delineati dal Parlamento nella
succitata legge delega e così come poi attuati dal legislatore delegato.
La delega parlamentare individuava infatti nella «proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti»
un canone fondamentale che avrebbe dovuto guidare il Governo nell’opera
di revisione, precisando che, nella delimitazione dell’area di
intervento del diritto penale – in particolare al fine di configurare i
reati concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati
alla creazione e all'utilizzo di documentazione falsa – avrebbe dovuto
tener conto di adeguate soglie di punibilità.
Dall’angolo visuale del reato di
dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti, tali principi-guida non hanno trovato riscontro
in sede di attuazione della legge delega. Il Governo non ha infatti
ritenuto di introdurre una soglia di punibilità per il delitto in esame,
al superamento della quale ancorare l’attivazione della sanzione
penale: scelta ancor più eccentrica, qualora si consideri il
generalizzato innalzamento delle originarie soglie di punibilità
previste per gli altri reati tributari.
Per tale via, oltre a risultare
corroborata l’impressione che il legislatore abbia rinunciato a
uniformare il delitto di cui all’articolo 2, Decreto
Legislativo 74/2000, al principio di proporzionalità – posto che la
reazione sanzionatoria resta compresa nei limiti edittali attualmente
previsti a prescindere dalla quantificazione dell’evasione e, quindi,
dall’intensità dell’offesa arrecata con la condotta delittuosa – pare
profilarsi altresì una violazione dell’articolo 76 Cost. per mancato
esercizio della delega legislativa sugli elementi citati.
L’organo giudicante non ha tuttavia
ritenuto di condividere le argomentazioni della difesa, dichiarando
infondata la questione di legittimità prospettata [7].
Il giudice veneziano osserva, in
particolare, che la scelta legislativa di affidare la reazione
ordinamentale alla sola sanzione penale nelle ipotesi disciplinate
all’articolo 2 sarebbe giustificata alla luce della peculiare
insidiosità della condotta ivi tipizzata: di qui il rispetto del canone
di proporzionalità tra offesa e sanzione. Inoltre – a parere del
giudicante – il principio di offensività risulta salvaguardato, non solo
in quanto la cornice edittale fissata dall’articolo 2 si estende tra un
minimo ed un massimo “ragionevoli”, ma altresì considerando che ai
reati fiscali può essere applicato l’istituto della particolare tenuità
del fatto.
Pare opportuno soffermarsi, pur brevemente, su quest’ultima affermazione. L’istituto delineato dall’articolo 131-bis del codice penale opera con riferimento ai soli reati «per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni»: platea all’interno della quale non rientra il delitto di dichiarazione infedele ex
articolo 2, per il quale il legislatore ha fissato in sei anni la pena
detentiva massima. Conseguentemente, non sembrerebbe del tutto puntuale
il richiamo alla particolare tenuità del fatto quale istituto
astrattamente in grado di riallineare la fattispecie in esame ai dettami
del principio di offensività.
Infine, per quel che concerne la mancata
previsione di soglie di punibilità all’articolo 2, l’infondatezza della
questione di legittimità viene argomentata richiamando – non senza
alcune ambiguità nella redazione materiale del punto, tali da far
residuare alcune incertezze di decifrazione – la sentenza n. 80 del
2014, con la quale il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 10-ter del decreto legislativo 10
marzo 2000, n. 74 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi
sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’imposta sul
valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per
importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro
103.291,38. La Corte costituzionale – afferma il giudice di Venezia – ha
ravvisato l’illegittimità del regime sanzionatorio dell’articolo 10-ter
proprio alla luce della peculiarità degli elementi costitutivi
dell’articolo 2, che si connotano per una maggiore gravità rispetto ai
reati di cui all’articolo 5, oltre che ai delitti disciplinati agli
articoli 10-ter e 10-bis.
In realtà non sembra che la pronuncia
della Consulta sia stata correttamente citata. Nell’arresto del 2014 il
giudice di Palazzo della Consulta giunge a una declaratoria di
illegittimità costituzionale valorizzando il difetto di coordinamento
intercorrente tra la soglia di punibilità prevista dall’articolo 10-ter
e quelle dei delitti di infedele e omessa dichiarazione (artt. 4 e 5
del d.lgs. n. 74 del 2000): tale distonia sarebbe infatti foriera di
sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza,
rendevano censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante
al legislatore nella configurazione delle fattispecie astratte di reato.
La rilevata discrasia determinava, infatti, una conseguenza palesemente
illogica e lesiva del principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.) nel
caso in cui l’IVA dovuta dal contribuente si situasse nell’intervallo
tra l’una e le altre soglie. In tale evenienza, veniva trattato in modo
deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione IVA senza
versare l’importo di cui si era riconosciuto debitore, rispetto a chi
non avesse presentato affatto la dichiarazione, o avesse presentato una
dichiarazione inveritiera, evadendo del pari l’imposta: nel primo caso,
il contribuente avrebbe dovuto rispondere del delitto di omesso
versamento dell’IVA; nel secondo sarebbe andato invece esente da pena,
non risultando superate le soglie di punibilità previste per l’omessa o
infedele dichiarazione. Esito evidentemente poco coerente, posto che gli
illeciti previsti dagli articoli 4 e 5 risultano più gravi del primo,
sul piano dell’attitudine lesiva degli interessi del fisco, in quanto
idonei – diversamente da quello – ad ostacolare l’accertamento
dell’evasione da parte dell’amministrazione finanziaria.
Tanto premesso, la Corte costituzionale riconosce che «una
disparità di trattamento similare si riscontra, in verità, anche con
riferimento al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri
artifici, previsto dall’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 74 del
2000»: disparità che, invece, non si ravvisa «con riguardo al
delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti, di cui all’articolo 2, che è privo
di soglia». A ben vedere, il Giudice delle leggi si è qui limitato
a riscontrare il dato normativo dell’assenza di soglie di punibilità
nella struttura dell’articolo 2, senza tuttavia soffermarsi a ragionare
sul perché tale delitto non contempli alcuna soglia di
punibilità: non vi è dunque alcun riferimento alla particolare gravità
che connota la condotta di dichiarazione fraudolenta ex articolo 2.
Ma, anche a voler ipoteticamente
abbracciare la lettura della sentenza n. 84/2014 offerta dal giudice
veneziano, resta non convincente il ragionamento da quest’ultimo
seguito. Se infatti si può eventualmente concordare che l’assenza di
soglie di punibilità nell’articolo 2 possa trovare giustificazione
qualora tale delitto venga comparato con gli illeciti di cui agli
articoli 10-bis e 10-ter, a tal fine risultando
dirimente la maggior insidiosità della condotta preveduta dalla prima
disposizione, il medesimo argomento sembra meno pregnante allorché si
restringa la comparazione dell’articolo 2 con il delitto di cui
all’articolo 3. Si tratta infatti di reati assai simili, non solo a
livello strutturale [8]
ma anche dal punto di vista dell’offesa arrecata, i quali differiscono
unicamente in punto a concreta modalità attraverso la quale si realizza
la condotta fraudolenta: mediante «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», nell’articolo 2; attraverso «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti» nell’articolo 3 [9].
In tal senso non sembra che il Tribunale abbia addotto elementi
sufficienti a superare l’osservazione formulata dalla difesa, allorché
quest’ultima ha posto l’attenzione sulla discrasia intercorrente tra la
vicinanza “sostanziale” delle due fattispecie – rispettivamente
disciplinate agli artt. 2 e 3 – e la parallela, notevole, divergenza
sanzionatoria statuita dal legislatore.
Note:
[1] Sulle evoluzione del diritto penal-tributario, ex multis, Coppa-Sammartino, voce Sanzioni tributarie, in Enc. Dir., vol. XLI, Milano, 1989, 415 ss; Martini, Reati in materia di finanze e tributi, in Grosso-Padovani-Pagliaro (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2010, 1 ss.; Perini, voce Reati tributari, in Dig. disc. pen., Agg. VII, Torino, 2013, 479 ss.
[2] Cfr. Marello, Evanescenza
del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le
ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., 2013, 13, 269.
[3] Sul punto, Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: “luci” ed “ombre” di una riforma appena varata, in Riv. dir. trib., 2015, 4, 62-64.
[4] Lanzi-Aldrovandi, Diritto penale tributario, Cedam, Padova, 2014, 225-226.
[5] Ufficio del Massimario, Relazione n. III/13/2011, 20 settembre 2011, 6.
[6]
L’unica modifica che ha toccato la disposizione in esame concerne
l’ampliamento del novero delle dichiarazioni rilevanti al fine del reato
ivi previsto, mediante l’eliminazione dell’aggettivo “annuale”. Come
osservato nella Relazione del Massimario (Relazione n. III/05/2015, 28 ottobre 2015, 11) «il
delitto in questione può dunque ora perfezionarsi con qualunque
dichiarazione, fra le quali rientrano, a titolo meramente
esemplificativo, le dichiarazione dei redditi ed IRAP infra-annuali
conseguenti alla messa in liquidazione di una società, le dichiarazioni
nell’ipotesi di trasformazione, fusione e scissione societaria, le
dichiarazione di operazioni intracomunitarie relative agli acquisti, le
dichiarazioni mensili di acquisti di beni e servizi compiuti da enti o
altre associazioni non soggetti passivi di imposta. Il campo di
applicazione della norma risulta dunque ampliato, ma non, naturalmente,
con efficacia retroattiva, trattandosi di nuova incriminazione, anche se
parziale».
[7] Trib. Venezia, 12 luglio 2016.
[8]
Sulla sostanziale coincidenza strutturale dei delitti preveduti agli
artt. 2 e 3, d.lgs. 74/2000, cfr. Cass., sez. III, 15 dicembre 2015, n.
8668, con nota di Fontana, La Cassazione tratteggia i confini delle fattispecie di cui agli artt. 2, 3 e 11 d.lgs.74/2000, dopo la recente novella, in Dir. giust., 2016, 13, 38 ss.
[9]
Si noti peraltro che in entrambi i casi la condotta realizzata si
traduce in un rallentamento delle attività di indagine poste in essere
dall’Amministrazione finanziaria, dal momento che il contribuente
finisce per rendere più difficoltoso l’accertamento tributario. Tale
ostacolo risulta essere – per così dire – in re ipsa, allorché
l’agente faccia uso di documenti o fatture per operazioni inesistenti
(art. 2), mentre è espressamente richiesto per l’integrazione del
delitto ex art. 3: la condotta ivi delineata postula o il ricorso a
operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, oppure l’utilizzo
di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti che siano «idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria».
Articolo pubblicato in: Diritto tributario
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