Il lato privatistico della riforma monetaria, negli studi di
Tullio Ascarelli
Da:
La legislazione monetaria italiana nelle crisi tra le due guerre
(1926 – 1936), di Giovanni Basini, in Historia et ius, 10/2016,
qui:
https://www.academia.edu/30893837/La_legislazione_monetaria_italiana_nelle_crisi_tra_le_due_guerre_1926_1936_
La dottrina
privatistica sulla moneta negli anni della riforma monetaria fu
particolarmente feconda, perché la giurisprudenza favorevole ai
creditori, che tanta parte ebbe nel tutelare il valore della moneta
dedotta nei contratti dopo la prima guerra, andando per tentativi,
aveva trovato soluzioni valide pur se scarsamente motivate e, per il
diritto dell’epoca, incoerenti tra loro. La riflessione da ciò
scaturita offre oggi una fotografia storica dell’evoluzione della
legislazione monetaria tramite il contributo dei privati in quegli
anni.
In particolare,
l’opera di riferimento nel periodo è certamente il lavoro di
Tullio Ascarelli nel suo volume “La moneta. Considerazioni di
diritto privato” del 1928. Il giovane giurista, all’epoca
trentaquattrenne, si dedicò con esso a cercare un ordine e una
spiegazione razionale delle evoluzioni della giurisprudenza, con un
grande lavoro compilativo, l’intento del quale era dimostrare la
coesistenza di un fenomeno monetario proprio dello stato sovrano e di
un fenomeno monetario economico indipendente, riconosciuto dallo
Stato ma non promanante da esso. Questa distinzione secondo lui era
indispensabile per poter rendere in una teoria unitaria la
complessità di un fenomeno che, fino a quel momento, aveva
determinato una ridda di antinomie in ogni altro studio – compreso
quello, di poco precedente, reso da Gioacchino Scaduto nel 1924 che
ancora non divideva i due aspetti [91] .
Da questa teoria unitaria
avrebbe dovuto quindi discendere una sistemazione coerente della
giurisprudenza e della prassi contrattuale, che, durante la guerra,
s’erano mostrate sì, innovative ma anche incerte, conflittuali ed
incomplete, rispetto all’ambiente di forte instabilità monetaria
che avevano dovuto presidiare. Dal punto di vista della pratica, la
grande novità di quel contributo fu la distinzione tra debiti di
valuta e debiti di valore, che consentì un riordino generale di
tutti gli spunti sorti in essa fino a quel momento, con un grande
valore di precedente per l’intera successiva riflessione giuridica.
Questa conclusione trovava fondamento in una distinzione teorica
profonda, quella tra denaro e valuta.
Per dimostrare
l’esistenza di tale divisione fondamentale tra queste due nuove
categorie, che riteneva essere lo schema logico mancante alla
dottrina precedente, la riflessione di Ascarelli prese le mosse dalla
questione originaria del fenomeno monetario: le funzioni del denaro.
Ponendo come presupposto la circostanza che la misura del valore non
è l’unica né la principale funzione per la quale un determinato
bene mobile può venire considerato “moneta”, Ascarelli, parlando
delle diverse funzioni del denaro durante l’iperinflazione di
Weimar, afferma: “È noto come nella recente crisi monetaria
tedesca il marco-carta tendesse quasi a diventare mero strumento di
scambio e non più misuratore di valore; la pratica aveva
spontaneamente reagito alla svalutazione eliminando tra quelle del
marco la funzione per la quale appunto la stabilità di valore era
essenziale e si può affermare che, sia pur non in questa misura, un
fenomeno simile sia stato per avvenire anche tra noi, attraverso le
frequenti clausole oro valuta e oro valore, il richiamo della moneta
straniera come valuta di conto o effettiva nei contratti, il
commisuramento di stipendi, salari ecc. All’andamento dei numeri
indici del costo della vita” [92] giungendo così a concludere che la
funzione principale del denaro è proprio quella di essere un mezzo
di scambio, indipendentemente dal fatto che esso sia o meno anche un
misuratore di valore, ciò che egli definisce una funzione “ulteriore
ma normalmente accessoria”. Per l’Ascarelli “rimane quindi
confermata la coincidenza del concetto economico e di quello
giuridico del denaro”, ma nel senso che sia di diritto denaro ciò
che si scambia come tale.
La caratteristica
opposta della valuta, rispetto al denaro, è invece proprio quella di
essere prima di tutto una misura del valore, e solo dopo un mezzo di
scambio. “La valuta sta ad indicare quella particolare specie di
moneta che a tenore di un determinato ordinamento nelle obbligazioni
di danaro in genere si intenda dovuta quando manchi ogni ulteriore
determinazione e cui ci si deve rifare come misuratrice del valore in
mancanza di altra indicazione.” [93] e per questo “A proposito
della valuta si parla (...), di ultimo eventuale e forzoso mezzo di
soluzione delle obbligazioni e (...) si vuole con ciò indicare la
possibilità di ogni obbligazione di risolversi in una obbligazione
di valuta in quanto l’adempimento specifico non ne sia realizzabile
– e ciò anche indipendentemente dall’ipotesi del risarcimento
dei danni”. Così per Ascarelli “mentre il semplice concetto di
denaro implica una determinata qualifica di alcuni oggetti senza
alcun carattere normativo” dall’altra parte la valuta è un puro
prodotto del diritto: “il concetto di valuta ha un implicito
carattere normativo, sì che la sua determinazione non può trovare
la sua fonte se non in una fonte di diritto e non in una semplice
pratica di fatto (...) difatti è lo Stato quello che
legislativamente determina (contrariamente appunto a quanto ha luogo
in tema di danaro) le monete che nel proprio ordinamento debbono
venire considerate come valuta.” Ma per quanto diversa sia la loro
origine secondo Ascarelli denaro e valuta partecipano di una funzione
comune, poiché entrambi “sono strumenti di scambio, rientrando
anche la valuta sotto il più ampio concetto del danaro sopra
determinato”. La valuta è dunque un sottoinsieme del denaro, e
precisamente quel sottoinsieme che è legalmente definito come quello
misuratore di ogni specie diversa delle tante che compongono
l’insieme del denaro. Tra i due insiemi non v’è separatezza,
poiché, come esistono più tipi di denaro, esistono più tipi di
valuta e un solo ordinamento può riconoscerne più d’uno fra le
varie specie di denaro.
Nel sistema di
Ascarelli non vi era quindi affatto coincidenza tra la valuta e la
Lira.
In effetti,
l’obbligo di assolvere una prestazione in una data moneta e solo in
quella, senza poter depositare una somma di valuta nazionale in
tribunale per liberarsene era in quegli anni un riconoscimento che lo
Stato correntemente faceva anche alla moneta straniera. Al di là del
caso particolare delle valute europee finché perdurava l’Unione
Monetaria Latina [94] – primo fallimentare esperimento di sistema
monetario Europeo - l’equiparazione consuetudinaria delle monete
straniere alla valuta nazionale costituiva un vero e proprio
principio generale dell’ordinamento. Tutte le monete straniere
riconosciute come aventi “corso commerciale” ex art. 39 del
Codice del Commercio, in quanto circolanti ed utilizzate normalmente
nelle piazze e dunque reperibili, erano automaticamente dotate di
potere liberatorio al pari della Lira. La base giuridica di tale
riconoscimento era la consuetudine richiamata dall’articolo 39,
cioè quella caratteristica, affatto economica, di corso commerciale
colla quale si attribuiva al denaro la qualità, giuridica, di
valuta. Questa disposizione – norma cruciale per la giurisprudenza
di quegli anni – era pertanto la formula generale trasformatrice
dei debiti di denaro in debiti di valuta [95] .
Nel caso di mancanza
della moneta sul mercato, l’obbligazione ineseguibile nel danaro
dedotto in contratto per la sua irreperibilità si convertiva ex art.
39 nella valuta al tasso di cambio. Lo stesso accadeva anche per la
compensazione tra debiti in denaro e in valuta [96] . In tal modo il
debito era comunque riferito alla misura ultima legale e cioè la
valuta [97] .
Dalla natura di misura legale del valore e non di mezzo
di scambio della valuta discende il fatto che un debito illiquido
–non solo il debito di danaro– per essere legalmente assolto,
debba essere previamente liquidato in valuta, e di conseguenza che
tale debito, pre-esistendo come natura materiale alla misurazione
giuridica del suo valore in valuta, che avviene solo con la
liquidazione, non possa essere soggetto alle variazioni di valore
dell’unità di misura nel tempo che intercorre tra quando tale
debito si è formato e quando esso viene liquidato. La logica è che
se si misura un mobile con un certo metro e poi si tagliano via venti
centimetri del metro, non per la riduzione del metro si sarà
accorciato il mobile. Il che appare razionale considerare anche per
l’ammontare del debito. Ascarelli mostrava le applicazioni di tale
logica, ad esempio, in una significativa nota che fu resa in
occasione di una sentenza della Cassazione del Regno del dicembre
1928 [98] , affermando che vi fossero nell’ordinamento giuridico “una
serie di ipotesi nelle quali l’oggetto dell’obbligazione è costituito da un
valore”, la cui nozione “non si identifica con quella del prezzo”
perché “i debiti di valore non si identificano con i debiti di
danaro”. Fra questo tipo di obbligazioni l’autore poneva i casi
“del risarcimento del danno (...), del rimborso delle spese (...),
dell’obbligazione alimentare (...). In tutte queste ipotesi
l’oggetto del debito è, rigorosamente parlando, un valore: il
danno da risarcire, la spesa da rimborsare, l’arricchimento.”.
Egli non si sottraeva all’evidenza per cui ogni valore, prima o
poi, deve tradursi in una somma di valuta, se si vuol che abbia una
tutela giuridica, ma ne descriveva la portata in modo innovativo,
affermando che “Naturalmente questo valore dovrà essere espresso e
liquidato in moneta, ma ciò non diminuisce l’autonomia del valore
come oggetto di obbligazione, poiché altro è un valore da
liquidarsi in una determinata somma di moneta, altro è una somma di
moneta determinata fino ab initio.” [99] . Vi è questo concetto di
valuta misuratrice al centro della teoria Ascarelliana, ed alla
spiegazione complessiva del perché tante distinte giurisprudenze
precedenti [100] , certamente comprensive verso i creditori, dovevano
considerarsi non più stravaganti ed estemporanee, ma logicamente
rigorose: “Poiché il debito consiste in un valore e non in una
somma determinata di moneta, la sua liquidazione in valuta dovrà
farsi tenendo presente le oscillazioni del potere d’acquisto della
valuta dal momento nel quale il debito è sorto fino a quello nel
quale viene liquidato, sì da corrispondere al creditore sempre lo
stesso valore, seppure espresso in una diversa somma di valuta. (...) e ciò
indipendentemente da ogni dimostrazione dei danni che possa aver
subito per le oscillazioni del potere d’acquisto della moneta. La
norma difatti prescinde da un qualunque diritto al risarcimento per
queste oscillazioni ma dipende solamente dalla precisa determinazione
dell’oggetto del debito.”. Proprio dalla raggiunta distinzione
tra quanto doveva entrare nel debito in forza della liquidazione di
un valore, e quanto doveva considerarsi dovuto per eventuali danni,
che costituiva una voce affatto diversa, l’autore desumeva il
principio, attualmente previsto dal terzo comma dell’articolo 1224
del Codice Civile “Al creditore che dimostra di aver subito un
danno maggiore spetta l'ulteriore risarcimento.”. Ulteriormente
egli specificava come questo maggior danno si sarebbe presentato nel
caso di intervenute svalutazioni e rivalutazioni della valuta: “In
questa ipotesi il creditore avrebbe diritto di andare indenne dalle
eventuali conseguenze di una svalutazione della valuta nella quale si
compie la liquidazione, ma invece di approfittare della eventuale
rivalutazione della valuta della quale egli avrebbe potuto
approfittare qualora il danno non fosse stato arrecato” [101] .
Era
questa la coerente derivazione dal suo modello teorico di quanto già,
con procedere empirico, la Cassazione di Firenze aveva sancito nel
1916 [102] . Ma questa conclusione poteva sembrare che egli svuotasse
il principio nominalistico di cui all’articolo 1821 [103] del codice
civile del regno con un procedimento logico che portava il diritto
delle obbligazioni a prescinderne, nonostante prima di allora esso
fosse considerato come la norma generale per ogni debito di danaro
comunque inteso, tranne i soli debiti ex art. 1822 di specie
monetaria determinata [104] .
Cosicchè, onde respingere le prevedibili
obiezioni della dottrina dell’epoca alla sua ricostruzione,
dimostrando la superiore coerenza dell’argomento proposto,
Ascarelli si preoccupò di chiarire nel dettaglio quali fossero i
rapporti tra le sue conclusioni sulla distinzione fra i diversi tipi
di debito e l’articolo 1821 recante il principio nominalistico [105]
, dimostrando come la concezione fino a quel momento ritenuta
conseguente a tale principio discendesse, in realtà, da una diversa
e meno risalente norma, dettata dall’articolo 1231 [106] . In tal
modo la sua rilettura, lungi dal prescindere dal principio del valor
nominale, si fondava, all’opposto, proprio su una applicazione più
rigorosa di esso, che poteva tornare a distinguerne il contenuto da
quello successivo dell’articolo 1231.
Anche la procedura
civile era interessata dalla novità del meccanismo del maggior danno
da svalutazione, rilevante in tutti i casi di risarcimento [107] , in
particolare nei casi di mutamento della domanda, tipici negli anni di
variazione molto repentina del valore della moneta: “Il valore che
è oggetto del debito andrà difatti liquidato, consensualmente o
mediante sentenza, in moneta, e da questo momento il debito di valore
si trasformerà in debito di danaro [108]; fino a questo momento
invece rimarrà un debito di valore. (...) quindi non v’ha
mutamento della domanda per la parte che nel corso del giudizio
chieda una somma diversa da quella precedentemente fissata.”
Quanto alla prova
del “maggior danno” da svalutazione, due erano le condizioni
specificamente necessarie per Ascarelli: “Naturalmente perché il
creditore possa pretendere il risarcimento di un danno e quindi in
particolare del danno derivante dalle oscillazioni del potere
d’acquisto della valuta bisogna che dimostri di averlo subito (…) Ma il danno
risarcibile è costituito non solamente dal danno emergente, ma anche
dal lucro cessante (art. 1227 cod. civ.) e relativamente al lucro
cessante il creditore (attore) dovrà provare il fatto costitutivo
del lucro, e cioè il fatto in base al quale avrebbe realizzato il
guadagno. È questa la norma generale sulla distribuzione dell’onere
della prova (Ma potrà in questa dimostrazione farsi capo a delle
regole di esperienza, elaborate dalla giurisprudenza che io ho
tentato di esporre nel mio volume (p. 109 e segg.)”.
Tra queste
regole di esperienza l’autore commentava quella individuata dalla
sentenza di Cassazione del dicembre 1928 per gli effetti della
rivalutazione nazionale del 1927 sui rapporti di credito
estero-Italia di origine risarcitoria: “In relazione alla
svalutazione della moneta nazionale la nostra giurisprudenza ad
esempio ha implicitamente adottato la norma che il creditore abbia
[presuntivamente] patito i danni della svalutazione nella misura
corrispondente alle differenze di cambio tra il giorno della scadenza
e quello del pagamento. Nella giurisprudenza francese invece si tende
a distinguere l’ipotesi del creditore nazionale, da quella del
creditore straniero. (...) Probabilmente
è proprio su questo terreno che va distinta la ipotesi della
svalutazione da quella della rivalutazione della moneta nazionale,
che è ormai quella che più frequentemente offre occasione di
disputa. Per rimanere aderenti alla fattispecie della sentenza
facciamo il caso di un risarcimento di danni per determinare il quale
sia necessario il ricorso ad una somma di moneta straniera: nel
frattempo la moneta italiana si rivaluta. Se il creditore è
nazionale, si può presumere che egli avrebbe approfittato della
rivalutazione e si può quindi ammettere come il conguaglio debba
operarsi secondo il giorno del cambio del giorno del danno; se invece
è straniero si può presumere che egli avrebbe investito la moneta
nazionale italiana nella sua moneta e quindi non avrebbe approfittato
della rivalutazione, sì che il conguaglio dovrebbe essere quello del
giorno del pagamento.”.
Ma oltre a questa sentenza fondamentale di
poco successiva alla pubblicazione dell’opera di Ascarelli, sono
comunque innumerevoli le altre occasioni in cui il suo trattato o le
sue note sulla Rivista di Diritto Commerciale o il Foro Italiano
furono riferimento per le decisioni dell’epoca. Buon esempio di ciò
vi fu con la prima controversia su una clausola oro stipulata dopo il
Regio Decreto Legge 21 dicembre 1927, n. 2325. La questione di per sé
era di banalissima risoluzione, ma essa si rivelò eccellente
pretesto per un dibattito di politica del diritto di tutto rispetto
nelle note alla sentenza, tra Tullio Ascarelli e Alberto De Stefani
[109] .
Nella sua analisi l’ex Ministro, che sedeva nel Gran
Consiglio del Fascismo, prescindeva platealmente dal caso concreto,
puntando a far letteratura non tanto sugli effetti delle clausole
lire-oro stipulate dopo il decreto, ma su quali fossero gli effetti
per quelle stipulate prima di esso. La questione al riguardo era di
chiarire, secondo se al caso si ritenesse da applicarsi l’articolo
1821 o piuttosto il 1822 del Codice Civile del Regno, e nel caso si
considerassero l’uno o l’altro vincolanti per I liberi contratti,
quale fosse l’impatto, pieno o residuale, delle clausole lire-oro
sul corrispettivo dedotto nell’accordo [110] .
Secondo De Stefani,
seppure “qualche giurista ritiene che debbono essere eseguite con
tanto oro, o tanti biglietti di banca rappresentanti lo stesso peso
d’oro, che il creditore poteva esigere al momento del sorgere
dell’obbligazione. (...) noi riteniamo che il debitore possa
liberarsi dall’obbligazione, che ha per oggetto il pagamento in
lire-oro, pagando in lire oro quali esse sono per definizione di
legge nel momento dell’esecuzione. Infatti con la clausola del
pagamento in lire oro ci si riferisce non a un dato peso di oro ma a
quel dato peso di oro che la legge riconosce come unità monetaria”.
L’ex ministro argomentava questo dal fatto che, nel sistema del
codice, l’obbligo della restituzione dell’equivalente al valore
intrinseco che le monete avevano al tempo in cui furono mutuate
esistesse soltanto quando fossero somministrate monete d’oro o
argento e quando ne fosse stata pattuita la restituzione nella
medesima specie e quantità. Proprio a motivo dell’esistenza
dell’articolo 1822, quindi, egli affermava l’inderogabilità del
1821. In tal modo si mirava ad escludere che la legge contrattuale
dei privati potesse costituire un ostacolo al ribasso dei prezzi,
poiché esso era ritenuto dai pianificatori della riforma come
necessario per l’adeguamento dell’economia alla nuova parità del
cambio decisa a livello politico dal regime.
Dall’altra parte
si poneva Ascarelli, in difesa dell’assetto di volontà dedotto nel
contratto, secondo il quale la giurisprudenza aveva chiaramente
riconosciuto più e più volte la liceità delle clausole oro, che un
punto di vista come quello di De Stefani avrebbe invece completamente
annullato. In particolare, secondo Ascarelli, l’articolo 1821 era
una norma dispositiva come molte altre in materia contrattuale,
pienamente derogabile dalle parti, che potevano liberamente decidere
di far riferimento al diverso articolo 1822, col solo fatto di
apporre la clausola oro [111] .
Tale posizione aveva appena ricevuto
una conferma dalla Corte di Cassazione, la quale “in una ipotesi di
clausola argento, con sua pronuncia [112] ha dedotto questa norma
dall’art. 1822”, di conseguenza Ascarelli non lasciò spazi per
dubbi, affermando a chiare lettere, ad onta dei desideri del Governo
chiaramente rappresentati da De Stefani, che “Per i debiti pertanto
contratti con clausola oro prima del D.L. 1927 il creditore ha
diritto di incassare una quantità di moneta cartacea 3,66 volte
maggiore di quella stipulata, perché il contenuto di oro fino della
Lira è appunto diminuito 3,66 volte. Chè, se così non fosse, la
determinazione non avrebbe senso pratico e non sarebbe più tutelato
quell’interesse che la legge vuol proteggere”. La questione della
validità della clausola oro-valore, nel dominio dell’interpretazione
Ascarelliana, restò accettata come pacifica dalla giurisprudenza
degli anni successivi di ogni grado – e con larghezza di vedute [113]
.
La dottrina e la giurisprudenza orientate da Ascarelli
costituiscono importanti esempi di rilevanza dell’attività privata
nel determinare la legislazione monetaria sostanziale. Esse furono
fondamentali sia per il destino delle obbligazioni risarcitorie verso
l’estero regolate dalla nuova riforma, a vantaggio dei debitori
nazionali, sia per la prospettiva del Governo di imporre una
deflazione interna amministrativa agendo a scapito dei corrispettivi
dedotti nei contratti, che fu invece resa più difficile.
Note:
91. G. Scaduto, I
debiti pecuniari e il deprezzamento monetario, Milano 1924.
92. T. Ascarelli, La
moneta cit., p. 48 ss.
93. Storicamente
questa seconda funzione è stata forse la prima in relazione alla
quale si sia messo in evidenza il concetto di valuta. Così
nell’ordinamento monetario francese fino alla Rivoluzione la valuta
è innanzitutto valuta di conto; T. Ascarelli, Ivi, p. 119 ss.
94. V. F. Spinelli
M. Fratianni, Italy in the Gold Standard period, cit. p. 6
95. 39. “Se la
moneta indicata in un contratto non ha corso legale o commerciale nel
Regno e se il corso non fu espresso, il pagamento può essere fatto
colla moneta del paese, secondo il corso del cambio a vista nel
giorno della scadenza e nel luogo del pagamento, e, qualora ivi non
sia un corso di cambio, secondo il corso
della piazza più vicina, salvo se il contratto porti la clausola
“effettivo” od altra equivalente.”.
96. Per il caso
della compensazione e dunque trasformazione, tra un debito in valuta
(lire) e un debito in denaro (dollari), vedi il Lodo
Bonelli-Sraffa-Scialoja, in “Rivista del Diritto Commerciale”, II
(1922), p. 205 citato dall’autore.
97. T. Ascarelli, La
moneta cit., p. 131.
98. T. Ascarelli,
Risarcimento del danno e moneta estera, in “Il Foro Italiano”, I
(1929), p. 753, nota riprodotta poi anche
in T. Ascarelli, Studi giuridici sulla moneta, Milano 1952, p. 107,
alla sentenza della Corte di Cassazione, 6 dicembre 1928, Soc. Docks
Cotoni c. Taccone e Consorzio autonomo Porto di Genova, “1. Qualora
sia stato stabilito che il vettore di una merce debba risarcire il
danno derivante dalla mancata consegna della merce stessa valutandone
il prezzo in una determinata moneta estera (nella specie, sterline),
non è applicabile al caso il disposto dell’articolo 39 cod. comm.,
ma l’entità economica del danno risarcibile deve essere calcolata
in base alla moneta estera prestabilita valutandola al momento in cui
avrebbe dovuto effettuarsi la consegna. 2. Ciò non toglie però che
l‘entità economica del danno in tal modo determinata possa esser
soddisfatta anche in moneta nazionale valutata al cambio del giorno
in cui venga effettuato il pagamento.”
99. Ascarelli
aggiungeva anche che “una interessante applicazione di questa
distinzione è quella compiuta dalla più
recente giurisprudenza fiscale in tema di bilanci (mio [La moneta
cit. Nota nostra] p. 252 testo e nota) sancendo come “la
plusvalenza delle attività patrimoniali di una società determinata
esclusivamente da svalutazione monetaria non costituisce reddito
tassabile agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile”.
100. Corte di
Cassazione, 3 marzo 1926, “Il Foro Italiano”, Rep. 1926, voce
Moneta nelle obbligaz., n.18; Corte di Cassazione, 26 luglio 1927,
“Il Foro Italiano”, Rep. 1927, voce cit., n. 3, 4. “Nei soli
debiti di danaro da pagarsi in carta moneta nessun conto può tenersi
della svalutazione o rivalutazione della moneta; ma negli altri
contratti della svalutazione o rivalutazione anzidetta va tenuto
conto. Così se alcuno, come nella specie, si è obbligato a riparare
dei veicoli con diritto a compenso ragguagliato al maggior valore ad
essi conferito dalle riparazioni, se nel maggior valore rientra il
rinvilio della moneta, tale svalutazione va detratta dal compenso
spettante all’autore della riparazione.”.
101. Il che si
sarebbe verificato se fosse stato pagato, avendo così egli e non
altri quella somma quando si sarebbe verificata l’oscillazione
profittevole. “Quando quindi per la determinazione del danno fosse
necessario ricorrere ad una determinata somma di moneta estera, il
conguaglio dovrebbe operarsi secondo il corso del giorno del
pagamento nell’ipotesi di svalutazione della moneta nazionale,
secondo quello del momento nel quale il danno è stato arrecato in
quella di rivalutazione.”. T. Ascarelli, Risarcimento, cit. p.755
102. Corte di
Cassazione di Firenze, 17 luglio 1916, Dormisch (Avv. Carnelutti) c.
D’Aronco, in “Il Foro Italiano”, I (1916), p. 1433, con la
seguente massima che la rivista chiariva essere “senza precedenti”:
“(...) (3)
Pattuito il pagamento in una determinata moneta estera, il danno
risentito dal creditore per il ritardo nel soddisfacimento
dell’obbligazione, stante il deprezzamento della moneta stessa nell’intervallo
fra la scadenza e il pagamento, costituisce una perdita propria e
speciale, da mettersi a carico del debitore, oltre e
indipendentemente dagli interessi di mora, i quali rappresentano
soltanto il risarcimento del danno comune, derivante dal ritardo
nell’impiego della somma tardivamente pagata.”.
103. “1821.
L'obbligazione risultante da un prestito in danari è sempre della
medesima somma numerica espressa nel contratto. Accadendo aumento o
diminuzione nelle monete prima che scada il termine del pagamento il
debitore deve restituire la somma numerica prestata e non è
obbligato a restituire questa somma che nella specie in corso al
tempo del pagamento.”
“Praticamente in
questo caso bisognerebbe ragguagliare il prezzo dei veicoli riparati
a quello dei veicoli non riparati
nel momento del rimborso; oggetto del rimborso sarebbe appunto questa differenza (...)”.
104. “1822. La
regola contenuta nel precedente articolo non ha luogo, quando siansi
somministrate monete d'oro o
d'argento, e ne sia stata pattuita la restituzione nella medesima
specie e quantità. Se viene alterato il
valore intrìnseco delle monete o queste non si possono ritrovare, o
sono messe fuori di corso, si rende
l'equivalente al valore intrinseco che le monete avevano al tempo in
cui furono mutuate.”
105. “Si è
ritenuto come una norma siffatta sia in contrasto col principio del
valore nominale, ma il contrasto che così
si pretende di ritrovare ha la sua fonte solamente in un’errata
concezione del principio del valore
nominale. Come risulta dalla storia della dottrina monetaria fino
alle codificazioni (...), come risulta dagli art. 1821 cod. civ. e
441 cod. pen. che costituiscono la base del principio del valore
nominale questo importa bensì che nei debiti così di danaro
genericamente come di valuta (...) si debba aver riguardo al valore
nominale della moneta, sì che l’equivalenza tra la moneta dovuta e
quella pagata si stabilisce al valore nominale (Pel problema della
clausola oro la cui validità è stata recentemente affermata dalla
Cass. Regno con sentenze 29 ottobre 1928 “Il Foro Italiano”, Rep.
1928, voce Moneta nelle obblig., n.8 e 11(...)), ma non importa
affatto che le oscillazioni del potere d’acquisto della moneta
siano assolutamente irrilevanti. Questa ulteriore norma è
implicitamente a base dell’art. 1231 cod. civ., ma non si
identifica con il principio del valore nominale e non potrà quindi
accogliersi che nei limiti d’applicazione dell’art. 1231 (Cfr.
per questa distinzione e la sua analitica dimostrazione il citato mio
p. 133 e segg. e particolarmente p. 141 e segg). La nostra
giurisprudenza ha quasi sempre implicitamente riconosciuta questa
distinzione, specialmente con le sentenze della Corte Suprema. (...)
È questa distinzione quella che viene implicitamente accolta dalla
giurisprudenza ormai unanime relativa all’art. 39 cod. comm. È
difatti massima ormai costante delle nostre Corti (V. (...) e
recentemente Cass. Regno 20 giugno 1928, “Il Foro Italiano”,
1928, I, 913) quella che quando il debitore di moneta estera paghi in
moneta nazionale avvalendosi della facultas solutionis concessa
dall’art. 39 cod. comm., il conguaglio sarà bensì effettuato
secondo il corso di cambio del giorno della scadenza come chiaramente
richiede la lettera di quell’articolo, ma il debitore debba
risarcire i danni della svalutazione della moneta nazionale e ciò
indipendentemente dai limiti dell’art. 1231 del quale non ricorre
l’applicazione in questo caso. Questi danni vengono liquidati nella
differenza del cambio tra il giorno della scadenza e quello del
pagamento, ma la giurisprudenza ha cura di mettere in evidenza come
detta liquidazione trovi il suo fondamento in una presunzione dei
danni effettivamente subiti dal creditore (Corte di Cassazione, 20
giugno 1928, “Il Foro Italiano”, I (1928), 913; Corte di
Cassazione, 11 maggio 1925, “Il Foro Italiano”, Rep. 1925 voce
Moneta nelle obblig., n. 18 e 19; Corte di Cassazione, 12 settembre
1925, Ibid. n. 5-6 (...)). Possiamo dunque affermare con sicurezza
come alla risarcibilità dei danni dipendenti da oscillazioni nel
potere d’acquisto della valuta non osti, fuori dei limiti di
applicazione dell’art. 1231, il principio del valor nominale”.
106. “1231. In
mancanza di patto speciale, nelle obbligazioni che hanno per oggetto
una somma di danaro, i danni
derivanti dal ritardo nell'eseguirle consistono sempre nel pagamento
degli interessi legali, salve le
regole particolari al commercio, alla fideiussione ed alla società.
Questi danni sono dovuti dal giorno
della mora, senza che il creditore sia tenuto a giustificare alcuna
perdita.”
107. Corte di
Cassazione, 30 novembre 1926, “Il Foro Italiano”, Rep.1927, voce
Danni inad. Contratt., n.19.
108. Ed in
particolare di valuta. Ciò secondo Ascarelli era riconosciuto da
precedente giurisprudenza, sia pure se in modo implicito: Corte di
Cassazione, 20 ottobre 1925 e 11 giugno 1926, “Il Foro Italiano”,
Rep. 1926, voce Moneta nelle obbligaz. nn. 20, 21, 40.
109. Il caso, di
fronte al Tribunale di Milano, fu deciso il 14 aprile 1932 tra
Ronchetti c. Soc. it. Ossigeni. La sentenza venne pubblicata in “Il
Foro Italiano”, I (1933), p. 193, con nota di A. De Stefani, Sulle
clausole contrattuali del pagamento in lire-oro, e fu poi
successivamente ripubblicata in “Rivista del Diritto Commerciale”,
II (1933), p. 190, con nota di T. Ascarelli. Per quanto riguarda la
causa in sé convenivano sia Ascarelli che De Stefani che
nell’interpretare il contratto il Tribunale, com’era di tutta
evidenza, avesse preso per valido e ancor vincolante un indice del
cambio della Lira con l’oro pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale non
ancora aggiornato alla nuova parità (o non ancora abrogato) per un
mero errore di fatto del legislatore.
110. 1821.
L'obbligazione risultante da un prestito in danari è sempre della
medesima somma numerica espressa nel contratto. Accadendo aumento o
diminuzione nelle monete prima che scada il termine del pagamento il
debitore deve restituire la somma numerica prestata e non è
obbligato a restituire questa somma che nella specie in corso al
tempo del pagamento.
1822. La regola
contenuta nel precedente articolo non ha luogo, quando siansi
somministrate monete d'oro o d'argento, e ne sia stata pattuita la
restituzione nella medesima specie e quantità.
Se viene alterato il
valore intrìnseco delle monete o queste non si possono ritrovare, o
sono messe fuori di corso, si rende l'equivalente al valore
intrinseco che le monete avevano al tempo in cui furono mutuate.
111. Scriveva il
giurista: “L’articolo 1821 sancisce, riferendosi al mutuo con una
disposizione che è però, per unanime consenso, generale, che un
debito pecuniario è sempre della somma nominale (numerica) indicata
nel contratto, qualunque aumento o diminuzione accada nel valore
della moneta. (...) Ma è lecito alle parti sottrarsi all’impero di
questa norma determinando la somma dovuta, non solo con riguardo al
valore nominale, ma anche considerando altri elementi: per es., la
sua corrispondenza ad una determinata quantità di oro fino? (...)
Dottrina e giurisprudenza si sono proposti questo problema, che è
appunto quello della liceità delle clausole oro, ed hanno risposto affermativamente, ravvisando nell’art. 1821 una norma dispositiva e
ritenendo anche che nessuna innovazione al riguardo è stata
introdotta col decreto del 1927 (Corte di Cassazione, 8 luglio 1927,
“Il Foro Italiano”, I (1928), p. 105; 28 gennaio 1929, in
“Giurisprudenza Italiana”, I (1929), p. 4401; 12 giugno 1931, “Il
Foro Italiano”, I, (1931), p. 1415). Possono dunque le parti,
anziché determinare solamente la somma numerica dovuta, determinare
anche la quantità di oro fino corrispondente. (...) Quando questa
determinazione abbia luogo, viene meno la regola una pro alia moneta
solvi potest. Ciò che importa che quando viene determinata anche la
specie monetaria (oro, argento), il creditore ha diritto appunto a
quella quantità metallica che corrisponde nel momento della
stipulazione alla somma numerica indicata e quindi, in caso di
svalutazione della moneta, a una somma numerica proporzionalmente
maggiore”.
112. Corte di
Cassazione, 18 aprile 1932, “Il Foro Italiano”, I (1933), p. 193.
113. Come si evince
dalle massime: Corte di Cassazione, 18 aprile 1932, Basile c.
Boscogrande, “Quando in un contratto sia stato pattuito che un
determinato pagamento (nella specie, canone enfiteutico) debba essere
eseguito in moneta d’oro o di argento il debitore, qualora la
moneta pattuita sia stata ritirata dalla circolazione, è tenuto a
pagare in applicazione dell’art. 1822 c.c. lo equivalente del
valore intrinseco che la moneta pattuita aveva al momento in cui fu
stipulato il contratto”, “Il Foro Italiano”, I, 193.; Corte di
Cassazione, 20 maggio 1932, Bossi c. Bossi, “È valido non
contrastando con le norme di cui nei RR.DD.LL. 21 dicembre 1927 n.
2325 e n. 2326, 26 febbraio 1928 n. 252 e 30 marzo 1928 n. 513, il
patto con cui, sciogliendosi una società, uno dei soci si obblighi
di corrispondere agli altri un compenso per un determinata somma in
lire-oro, da pagarsi in un dato numero di rate annuali, mediante
l’equivalente in lire-carta corrispondente al cambio dell’epoca
di scadenza di ciascuna rata.”
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