mercoledì 13 maggio 2020

Il lato privatistico della riforma monetaria


Il lato privatistico della riforma monetaria, negli studi di Tullio Ascarelli

Da: La legislazione monetaria italiana nelle crisi tra le due guerre (1926 – 1936), di Giovanni Basini, in Historia et ius, 10/2016, qui: https://www.academia.edu/30893837/La_legislazione_monetaria_italiana_nelle_crisi_tra_le_due_guerre_1926_1936_



    La dottrina privatistica sulla moneta negli anni della riforma monetaria fu particolarmente feconda, perché la giurisprudenza favorevole ai creditori, che tanta parte ebbe nel tutelare il valore della moneta dedotta nei contratti dopo la prima guerra, andando per tentativi, aveva trovato soluzioni valide pur se scarsamente motivate e, per il diritto dell’epoca, incoerenti tra loro. La riflessione da ciò scaturita offre oggi una fotografia storica dell’evoluzione della legislazione monetaria tramite il contributo dei privati in quegli anni.

    In particolare, l’opera di riferimento nel periodo è certamente il lavoro di Tullio Ascarelli nel suo volume “La moneta. Considerazioni di diritto privato” del 1928. Il giovane giurista, all’epoca trentaquattrenne, si dedicò con esso a cercare un ordine e una spiegazione razionale delle evoluzioni della giurisprudenza, con un grande lavoro compilativo, l’intento del quale era dimostrare la coesistenza di un fenomeno monetario proprio dello stato sovrano e di un fenomeno monetario economico indipendente, riconosciuto dallo Stato ma non promanante da esso. Questa distinzione secondo lui era indispensabile per poter rendere in una teoria unitaria la complessità di un fenomeno che, fino a quel momento, aveva determinato una ridda di antinomie in ogni altro studio – compreso quello, di poco precedente, reso da Gioacchino Scaduto nel 1924 che ancora non divideva i due aspetti [91] . 

   Da questa teoria unitaria avrebbe dovuto quindi discendere una sistemazione coerente della giurisprudenza e della prassi contrattuale, che, durante la guerra, s’erano mostrate sì, innovative ma anche incerte, conflittuali ed incomplete, rispetto all’ambiente di forte instabilità monetaria che avevano dovuto presidiare. Dal punto di vista della pratica, la grande novità di quel contributo fu la distinzione tra debiti di valuta e debiti di valore, che consentì un riordino generale di tutti gli spunti sorti in essa fino a quel momento, con un grande valore di precedente per l’intera successiva riflessione giuridica. Questa conclusione trovava fondamento in una distinzione teorica profonda, quella tra denaro e valuta.

   Per dimostrare l’esistenza di tale divisione fondamentale tra queste due nuove categorie, che riteneva essere lo schema logico mancante alla dottrina precedente, la riflessione di Ascarelli prese le mosse dalla questione originaria del fenomeno monetario: le funzioni del denaro. Ponendo come presupposto la circostanza che la misura del valore non è l’unica né la principale funzione per la quale un determinato bene mobile può venire considerato “moneta”, Ascarelli, parlando delle diverse funzioni del denaro durante l’iperinflazione di Weimar, afferma: “È noto come nella recente crisi monetaria tedesca il marco-carta tendesse quasi a diventare mero strumento di scambio e non più misuratore di valore; la pratica aveva spontaneamente reagito alla svalutazione eliminando tra quelle del marco la funzione per la quale appunto la stabilità di valore era essenziale e si può affermare che, sia pur non in questa misura, un fenomeno simile sia stato per avvenire anche tra noi, attraverso le frequenti clausole oro valuta e oro valore, il richiamo della moneta straniera come valuta di conto o effettiva nei contratti, il commisuramento di stipendi, salari ecc. All’andamento dei numeri indici del costo della vita” [92] giungendo così a concludere che la funzione principale del denaro è proprio quella di essere un mezzo di scambio, indipendentemente dal fatto che esso sia o meno anche un misuratore di valore, ciò che egli definisce una funzione “ulteriore ma normalmente accessoria”. Per l’Ascarelli “rimane quindi confermata la coincidenza del concetto economico e di quello giuridico del denaro”, ma nel senso che sia di diritto denaro ciò che si scambia come tale.

   La caratteristica opposta della valuta, rispetto al denaro, è invece proprio quella di essere prima di tutto una misura del valore, e solo dopo un mezzo di scambio. “La valuta sta ad indicare quella particolare specie di moneta che a tenore di un determinato ordinamento nelle obbligazioni di danaro in genere si intenda dovuta quando manchi ogni ulteriore determinazione e cui ci si deve rifare come misuratrice del valore in mancanza di altra indicazione.” [93] e per questo “A proposito della valuta si parla (...), di ultimo eventuale e forzoso mezzo di soluzione delle obbligazioni e (...) si vuole con ciò indicare la possibilità di ogni obbligazione di risolversi in una obbligazione di valuta in quanto l’adempimento specifico non ne sia realizzabile – e ciò anche indipendentemente dall’ipotesi del risarcimento dei danni”. Così per Ascarelli “mentre il semplice concetto di denaro implica una determinata qualifica di alcuni oggetti senza alcun carattere normativo” dall’altra parte la valuta è un puro prodotto del diritto: “il concetto di valuta ha un implicito carattere normativo, sì che la sua determinazione non può trovare la sua fonte se non in una fonte di diritto e non in una semplice pratica di fatto (...) difatti è lo Stato quello che legislativamente determina (contrariamente appunto a quanto ha luogo in tema di danaro) le monete che nel proprio ordinamento debbono venire considerate come valuta.” Ma per quanto diversa sia la loro origine secondo Ascarelli denaro e valuta partecipano di una funzione comune, poiché entrambi “sono strumenti di scambio, rientrando anche la valuta sotto il più ampio concetto del danaro sopra determinato”. La valuta è dunque un sottoinsieme del denaro, e precisamente quel sottoinsieme che è legalmente definito come quello misuratore di ogni specie diversa delle tante che compongono l’insieme del denaro. Tra i due insiemi non v’è separatezza, poiché, come esistono più tipi di denaro, esistono più tipi di valuta e un solo ordinamento può riconoscerne più d’uno fra le varie specie di denaro.
Nel sistema di Ascarelli non vi era quindi affatto coincidenza tra la valuta e la Lira.

   In effetti, l’obbligo di assolvere una prestazione in una data moneta e solo in quella, senza poter depositare una somma di valuta nazionale in tribunale per liberarsene era in quegli anni un riconoscimento che lo Stato correntemente faceva anche alla moneta straniera. Al di là del caso particolare delle valute europee finché perdurava l’Unione Monetaria Latina [94] – primo fallimentare esperimento di sistema monetario Europeo - l’equiparazione consuetudinaria delle monete straniere alla valuta nazionale costituiva un vero e proprio principio generale dell’ordinamento. Tutte le monete straniere riconosciute come aventi “corso commerciale” ex art. 39 del Codice del Commercio, in quanto circolanti ed utilizzate normalmente nelle piazze e dunque reperibili, erano automaticamente dotate di potere liberatorio al pari della Lira. La base giuridica di tale riconoscimento era la consuetudine richiamata dall’articolo 39, cioè quella caratteristica, affatto economica, di corso commerciale colla quale si attribuiva al denaro la qualità, giuridica, di valuta. Questa disposizione – norma cruciale per la giurisprudenza di quegli anni – era pertanto la formula generale trasformatrice dei debiti di denaro in debiti di valuta [95] . 

   Nel caso di mancanza della moneta sul mercato, l’obbligazione ineseguibile nel danaro dedotto in contratto per la sua irreperibilità si convertiva ex art. 39 nella valuta al tasso di cambio. Lo stesso accadeva anche per la compensazione tra debiti in denaro e in valuta [96] . In tal modo il debito era comunque riferito alla misura ultima legale e cioè la valuta [97] . 

   Dalla natura di misura legale del valore e non di mezzo di scambio della valuta discende il fatto che un debito illiquido –non solo il debito di danaro– per essere legalmente assolto, debba essere previamente liquidato in valuta, e di conseguenza che tale debito, pre-esistendo come natura materiale alla misurazione giuridica del suo valore in valuta, che avviene solo con la liquidazione, non possa essere soggetto alle variazioni di valore dell’unità di misura nel tempo che intercorre tra quando tale debito si è formato e quando esso viene liquidato. La logica è che se si misura un mobile con un certo metro e poi si tagliano via venti centimetri del metro, non per la riduzione del metro si sarà accorciato il mobile. Il che appare razionale considerare anche per l’ammontare del debito. Ascarelli mostrava le applicazioni di tale logica, ad esempio, in una significativa nota che fu resa in occasione di una sentenza della Cassazione del Regno del dicembre 1928 [98] , affermando che vi fossero nell’ordinamento giuridico “una serie di ipotesi nelle quali l’oggetto dell’obbligazione è costituito da un valore”, la cui nozione “non si identifica con quella del prezzo” perché “i debiti di valore non si identificano con i debiti di danaro”. Fra questo tipo di obbligazioni l’autore poneva i casi “del risarcimento del danno (...), del rimborso delle spese (...), dell’obbligazione alimentare (...). In tutte queste ipotesi l’oggetto del debito è, rigorosamente parlando, un valore: il danno da risarcire, la spesa da rimborsare, l’arricchimento.”. Egli non si sottraeva all’evidenza per cui ogni valore, prima o poi, deve tradursi in una somma di valuta, se si vuol che abbia una tutela giuridica, ma ne descriveva la portata in modo innovativo, affermando che “Naturalmente questo valore dovrà essere espresso e liquidato in moneta, ma ciò non diminuisce l’autonomia del valore come oggetto di obbligazione, poiché altro è un valore da liquidarsi in una determinata somma di moneta, altro è una somma di moneta determinata fino ab initio.” [99] . Vi è questo concetto di valuta misuratrice al centro della teoria Ascarelliana, ed alla spiegazione complessiva del perché tante distinte giurisprudenze precedenti [100] , certamente comprensive verso i creditori, dovevano considerarsi non più stravaganti ed estemporanee, ma logicamente rigorose: “Poiché il debito consiste in un valore e non in una somma determinata di moneta, la sua liquidazione in valuta dovrà farsi tenendo presente le oscillazioni del potere d’acquisto della valuta dal momento nel quale il debito è sorto fino a quello nel quale viene liquidato, sì da corrispondere al creditore sempre lo stesso valore, seppure espresso in una diversa somma di valuta. (...) e ciò indipendentemente da ogni dimostrazione dei danni che possa aver subito per le oscillazioni del potere d’acquisto della moneta. La norma difatti prescinde da un qualunque diritto al risarcimento per queste oscillazioni ma dipende solamente dalla precisa determinazione dell’oggetto del debito.”. Proprio dalla raggiunta distinzione tra quanto doveva entrare nel debito in forza della liquidazione di un valore, e quanto doveva considerarsi dovuto per eventuali danni, che costituiva una voce affatto diversa, l’autore desumeva il principio, attualmente previsto dal terzo comma dell’articolo 1224 del Codice Civile “Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l'ulteriore risarcimento.”. Ulteriormente egli specificava come questo maggior danno si sarebbe presentato nel caso di intervenute svalutazioni e rivalutazioni della valuta: “In questa ipotesi il creditore avrebbe diritto di andare indenne dalle eventuali conseguenze di una svalutazione della valuta nella quale si compie la liquidazione, ma invece di approfittare della eventuale rivalutazione della valuta della quale egli avrebbe potuto approfittare qualora il danno non fosse stato arrecato” [101] . 

   Era questa la coerente derivazione dal suo modello teorico di quanto già, con procedere empirico, la Cassazione di Firenze aveva sancito nel 1916 [102] . Ma questa conclusione poteva sembrare che egli svuotasse il principio nominalistico di cui all’articolo 1821 [103] del codice civile del regno con un procedimento logico che portava il diritto delle obbligazioni a prescinderne, nonostante prima di allora esso fosse considerato come la norma generale per ogni debito di danaro comunque inteso, tranne i soli debiti ex art. 1822 di specie monetaria determinata [104] . 

   Cosicchè, onde respingere le prevedibili obiezioni della dottrina dell’epoca alla sua ricostruzione, dimostrando la superiore coerenza dell’argomento proposto, Ascarelli si preoccupò di chiarire nel dettaglio quali fossero i rapporti tra le sue conclusioni sulla distinzione fra i diversi tipi di debito e l’articolo 1821 recante il principio nominalistico [105] , dimostrando come la concezione fino a quel momento ritenuta conseguente a tale principio discendesse, in realtà, da una diversa e meno risalente norma, dettata dall’articolo 1231 [106] . In tal modo la sua rilettura, lungi dal prescindere dal principio del valor nominale, si fondava, all’opposto, proprio su una applicazione più rigorosa di esso, che poteva tornare a distinguerne il contenuto da quello successivo dell’articolo 1231.

   Anche la procedura civile era interessata dalla novità del meccanismo del maggior danno da svalutazione, rilevante in tutti i casi di risarcimento [107] , in particolare nei casi di mutamento della domanda, tipici negli anni di variazione molto repentina del valore della moneta: “Il valore che è oggetto del debito andrà difatti liquidato, consensualmente o mediante sentenza, in moneta, e da questo momento il debito di valore si trasformerà in debito di danaro [108]; fino a questo momento invece rimarrà un debito di valore. (...) quindi non v’ha mutamento della domanda per la parte che nel corso del giudizio chieda una somma diversa da quella precedentemente fissata.”

Quanto alla prova del “maggior danno” da svalutazione, due erano le condizioni specificamente necessarie per Ascarelli: “Naturalmente perché il creditore possa pretendere il risarcimento di un danno e quindi in particolare del danno derivante dalle oscillazioni del potere d’acquisto della valuta bisogna che dimostri di averlo subito (…) Ma il danno risarcibile è costituito non solamente dal danno emergente, ma anche dal lucro cessante (art. 1227 cod. civ.) e relativamente al lucro cessante il creditore (attore) dovrà provare il fatto costitutivo del lucro, e cioè il fatto in base al quale avrebbe realizzato il guadagno. È questa la norma generale sulla distribuzione dell’onere della prova (Ma potrà in questa dimostrazione farsi capo a delle regole di esperienza, elaborate dalla giurisprudenza che io ho tentato di esporre nel mio volume (p. 109 e segg.)”. 

   Tra queste regole di esperienza l’autore commentava quella individuata dalla sentenza di Cassazione del dicembre 1928 per gli effetti della rivalutazione nazionale del 1927 sui rapporti di credito estero-Italia di origine risarcitoria: “In relazione alla svalutazione della moneta nazionale la nostra giurisprudenza ad esempio ha implicitamente adottato la norma che il creditore abbia [presuntivamente] patito i danni della svalutazione nella misura corrispondente alle differenze di cambio tra il giorno della scadenza e quello del pagamento. Nella giurisprudenza francese invece si tende a distinguere l’ipotesi del creditore nazionale, da quella del creditore straniero. (...) Probabilmente è proprio su questo terreno che va distinta la ipotesi della svalutazione da quella della rivalutazione della moneta nazionale, che è ormai quella che più frequentemente offre occasione di disputa. Per rimanere aderenti alla fattispecie della sentenza facciamo il caso di un risarcimento di danni per determinare il quale sia necessario il ricorso ad una somma di moneta straniera: nel frattempo la moneta italiana si rivaluta. Se il creditore è nazionale, si può presumere che egli avrebbe approfittato della rivalutazione e si può quindi ammettere come il conguaglio debba operarsi secondo il giorno del cambio del giorno del danno; se invece è straniero si può presumere che egli avrebbe investito la moneta nazionale italiana nella sua moneta e quindi non avrebbe approfittato della rivalutazione, sì che il conguaglio dovrebbe essere quello del giorno del pagamento.”. 

   Ma oltre a questa sentenza fondamentale di poco successiva alla pubblicazione dell’opera di Ascarelli, sono comunque innumerevoli le altre occasioni in cui il suo trattato o le sue note sulla Rivista di Diritto Commerciale o il Foro Italiano furono riferimento per le decisioni dell’epoca. Buon esempio di ciò vi fu con la prima controversia su una clausola oro stipulata dopo il Regio Decreto Legge 21 dicembre 1927, n. 2325. La questione di per sé era di banalissima risoluzione, ma essa si rivelò eccellente pretesto per un dibattito di politica del diritto di tutto rispetto nelle note alla sentenza, tra Tullio Ascarelli e Alberto De Stefani [109] . 

   Nella sua analisi l’ex Ministro, che sedeva nel Gran Consiglio del Fascismo, prescindeva platealmente dal caso concreto, puntando a far letteratura non tanto sugli effetti delle clausole lire-oro stipulate dopo il decreto, ma su quali fossero gli effetti per quelle stipulate prima di esso. La questione al riguardo era di chiarire, secondo se al caso si ritenesse da applicarsi l’articolo 1821 o piuttosto il 1822 del Codice Civile del Regno, e nel caso si considerassero l’uno o l’altro vincolanti per I liberi contratti, quale fosse l’impatto, pieno o residuale, delle clausole lire-oro sul corrispettivo dedotto nell’accordo [110] . 

   Secondo De Stefani, seppure “qualche giurista ritiene che debbono essere eseguite con tanto oro, o tanti biglietti di banca rappresentanti lo stesso peso d’oro, che il creditore poteva esigere al momento del sorgere dell’obbligazione. (...) noi riteniamo che il debitore possa liberarsi dall’obbligazione, che ha per oggetto il pagamento in lire-oro, pagando in lire oro quali esse sono per definizione di legge nel momento dell’esecuzione. Infatti con la clausola del pagamento in lire oro ci si riferisce non a un dato peso di oro ma a quel dato peso di oro che la legge riconosce come unità monetaria”. L’ex ministro argomentava questo dal fatto che, nel sistema del codice, l’obbligo della restituzione dell’equivalente al valore intrinseco che le monete avevano al tempo in cui furono mutuate esistesse soltanto quando fossero somministrate monete d’oro o argento e quando ne fosse stata pattuita la restituzione nella medesima specie e quantità. Proprio a motivo dell’esistenza dell’articolo 1822, quindi, egli affermava l’inderogabilità del 1821. In tal modo si mirava ad escludere che la legge contrattuale dei privati potesse costituire un ostacolo al ribasso dei prezzi, poiché esso era ritenuto dai pianificatori della riforma come necessario per l’adeguamento dell’economia alla nuova parità del cambio decisa a livello politico dal regime.

   Dall’altra parte si poneva Ascarelli, in difesa dell’assetto di volontà dedotto nel contratto, secondo il quale la giurisprudenza aveva chiaramente riconosciuto più e più volte la liceità delle clausole oro, che un punto di vista come quello di De Stefani avrebbe invece completamente annullato. In particolare, secondo Ascarelli, l’articolo 1821 era una norma dispositiva come molte altre in materia contrattuale, pienamente derogabile dalle parti, che potevano liberamente decidere di far riferimento al diverso articolo 1822, col solo fatto di apporre la clausola oro [111] . 

   Tale posizione aveva appena ricevuto una conferma dalla Corte di Cassazione, la quale “in una ipotesi di clausola argento, con sua pronuncia [112] ha dedotto questa norma dall’art. 1822”, di conseguenza Ascarelli non lasciò spazi per dubbi, affermando a chiare lettere, ad onta dei desideri del Governo chiaramente rappresentati da De Stefani, che “Per i debiti pertanto contratti con clausola oro prima del D.L. 1927 il creditore ha diritto di incassare una quantità di moneta cartacea 3,66 volte maggiore di quella stipulata, perché il contenuto di oro fino della Lira è appunto diminuito 3,66 volte. Chè, se così non fosse, la determinazione non avrebbe senso pratico e non sarebbe più tutelato quell’interesse che la legge vuol proteggere”. La questione della validità della clausola oro-valore, nel dominio dell’interpretazione Ascarelliana, restò accettata come pacifica dalla giurisprudenza degli anni successivi di ogni grado – e con larghezza di vedute [113] . 

   La dottrina e la giurisprudenza orientate da Ascarelli costituiscono importanti esempi di rilevanza dell’attività privata nel determinare la legislazione monetaria sostanziale. Esse furono fondamentali sia per il destino delle obbligazioni risarcitorie verso l’estero regolate dalla nuova riforma, a vantaggio dei debitori nazionali, sia per la prospettiva del Governo di imporre una deflazione interna amministrativa agendo a scapito dei corrispettivi dedotti nei contratti, che fu invece resa più difficile.


Note:

91. G. Scaduto, I debiti pecuniari e il deprezzamento monetario, Milano 1924.

92. T. Ascarelli, La moneta cit., p. 48 ss.

93. Storicamente questa seconda funzione è stata forse la prima in relazione alla quale si sia messo in evidenza il concetto di valuta. Così nell’ordinamento monetario francese fino alla Rivoluzione la valuta è innanzitutto valuta di conto; T. Ascarelli, Ivi, p. 119 ss.

94. V. F. Spinelli M. Fratianni, Italy in the Gold Standard period, cit. p. 6

95. 39. “Se la moneta indicata in un contratto non ha corso legale o commerciale nel Regno e se il corso non fu espresso, il pagamento può essere fatto colla moneta del paese, secondo il corso del cambio a vista nel giorno della scadenza e nel luogo del pagamento, e, qualora ivi non sia un corso di cambio, secondo il corso della piazza più vicina, salvo se il contratto porti la clausola “effettivo” od altra equivalente.”.

96. Per il caso della compensazione e dunque trasformazione, tra un debito in valuta (lire) e un debito in denaro (dollari), vedi il Lodo Bonelli-Sraffa-Scialoja, in “Rivista del Diritto Commerciale”, II (1922), p. 205 citato dall’autore.

97. T. Ascarelli, La moneta cit., p. 131.

98. T. Ascarelli, Risarcimento del danno e moneta estera, in “Il Foro Italiano”, I (1929), p. 753, nota riprodotta poi anche in T. Ascarelli, Studi giuridici sulla moneta, Milano 1952, p. 107, alla sentenza della Corte di Cassazione, 6 dicembre 1928, Soc. Docks Cotoni c. Taccone e Consorzio autonomo Porto di Genova, “1. Qualora sia stato stabilito che il vettore di una merce debba risarcire il danno derivante dalla mancata consegna della merce stessa valutandone il prezzo in una determinata moneta estera (nella specie, sterline), non è applicabile al caso il disposto dell’articolo 39 cod. comm., ma l’entità economica del danno risarcibile deve essere calcolata in base alla moneta estera prestabilita valutandola al momento in cui avrebbe dovuto effettuarsi la consegna. 2. Ciò non toglie però che l‘entità economica del danno in tal modo determinata possa esser soddisfatta anche in moneta nazionale valutata al cambio del giorno in cui venga effettuato il pagamento.”

99. Ascarelli aggiungeva anche che “una interessante applicazione di questa distinzione è quella compiuta dalla più recente giurisprudenza fiscale in tema di bilanci (mio [La moneta cit. Nota nostra] p. 252 testo e nota) sancendo come “la plusvalenza delle attività patrimoniali di una società determinata esclusivamente da svalutazione monetaria non costituisce reddito tassabile agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile”.

100. Corte di Cassazione, 3 marzo 1926, “Il Foro Italiano”, Rep. 1926, voce Moneta nelle obbligaz., n.18; Corte di Cassazione, 26 luglio 1927, “Il Foro Italiano”, Rep. 1927, voce cit., n. 3, 4. “Nei soli debiti di danaro da pagarsi in carta moneta nessun conto può tenersi della svalutazione o rivalutazione della moneta; ma negli altri contratti della svalutazione o rivalutazione anzidetta va tenuto conto. Così se alcuno, come nella specie, si è obbligato a riparare dei veicoli con diritto a compenso ragguagliato al maggior valore ad essi conferito dalle riparazioni, se nel maggior valore rientra il rinvilio della moneta, tale svalutazione va detratta dal compenso spettante all’autore della riparazione.”.

101. Il che si sarebbe verificato se fosse stato pagato, avendo così egli e non altri quella somma quando si sarebbe verificata l’oscillazione profittevole. “Quando quindi per la determinazione del danno fosse necessario ricorrere ad una determinata somma di moneta estera, il conguaglio dovrebbe operarsi secondo il corso del giorno del pagamento nell’ipotesi di svalutazione della moneta nazionale, secondo quello del momento nel quale il danno è stato arrecato in quella di rivalutazione.”. T. Ascarelli, Risarcimento, cit. p.755

102. Corte di Cassazione di Firenze, 17 luglio 1916, Dormisch (Avv. Carnelutti) c. D’Aronco, in “Il Foro Italiano”, I (1916), p. 1433, con la seguente massima che la rivista chiariva essere “senza precedenti”:
“(...) (3) Pattuito il pagamento in una determinata moneta estera, il danno risentito dal creditore per il ritardo nel soddisfacimento dell’obbligazione, stante il deprezzamento della moneta stessa nell’intervallo fra la scadenza e il pagamento, costituisce una perdita propria e speciale, da mettersi a carico del debitore, oltre e indipendentemente dagli interessi di mora, i quali rappresentano soltanto il risarcimento del danno comune, derivante dal ritardo nell’impiego della somma tardivamente pagata.”.

103. “1821. L'obbligazione risultante da un prestito in danari è sempre della medesima somma numerica espressa nel contratto. Accadendo aumento o diminuzione nelle monete prima che scada il termine del pagamento il debitore deve restituire la somma numerica prestata e non è obbligato a restituire questa somma che nella specie in corso al tempo del pagamento.”
“Praticamente in questo caso bisognerebbe ragguagliare il prezzo dei veicoli riparati a quello dei veicoli non riparati nel momento del rimborso; oggetto del rimborso sarebbe appunto questa differenza (...)”.

104. “1822. La regola contenuta nel precedente articolo non ha luogo, quando siansi somministrate monete d'oro o d'argento, e ne sia stata pattuita la restituzione nella medesima specie e quantità. Se viene alterato il valore intrìnseco delle monete o queste non si possono ritrovare, o sono messe fuori di corso, si rende l'equivalente al valore intrinseco che le monete avevano al tempo in cui furono mutuate.”

105. “Si è ritenuto come una norma siffatta sia in contrasto col principio del valore nominale, ma il contrasto che così si pretende di ritrovare ha la sua fonte solamente in un’errata concezione del principio del valore nominale. Come risulta dalla storia della dottrina monetaria fino alle codificazioni (...), come risulta dagli art. 1821 cod. civ. e 441 cod. pen. che costituiscono la base del principio del valore nominale questo importa bensì che nei debiti così di danaro genericamente come di valuta (...) si debba aver riguardo al valore nominale della moneta, sì che l’equivalenza tra la moneta dovuta e quella pagata si stabilisce al valore nominale (Pel problema della clausola oro la cui validità è stata recentemente affermata dalla Cass. Regno con sentenze 29 ottobre 1928 “Il Foro Italiano”, Rep. 1928, voce Moneta nelle obblig., n.8 e 11(...)), ma non importa affatto che le oscillazioni del potere d’acquisto della moneta siano assolutamente irrilevanti. Questa ulteriore norma è implicitamente a base dell’art. 1231 cod. civ., ma non si identifica con il principio del valore nominale e non potrà quindi accogliersi che nei limiti d’applicazione dell’art. 1231 (Cfr. per questa distinzione e la sua analitica dimostrazione il citato mio p. 133 e segg. e particolarmente p. 141 e segg). La nostra giurisprudenza ha quasi sempre implicitamente riconosciuta questa distinzione, specialmente con le sentenze della Corte Suprema. (...) È questa distinzione quella che viene implicitamente accolta dalla giurisprudenza ormai unanime relativa all’art. 39 cod. comm. È difatti massima ormai costante delle nostre Corti (V. (...) e recentemente Cass. Regno 20 giugno 1928, “Il Foro Italiano”, 1928, I, 913) quella che quando il debitore di moneta estera paghi in moneta nazionale avvalendosi della facultas solutionis concessa dall’art. 39 cod. comm., il conguaglio sarà bensì effettuato secondo il corso di cambio del giorno della scadenza come chiaramente richiede la lettera di quell’articolo, ma il debitore debba risarcire i danni della svalutazione della moneta nazionale e ciò indipendentemente dai limiti dell’art. 1231 del quale non ricorre l’applicazione in questo caso. Questi danni vengono liquidati nella differenza del cambio tra il giorno della scadenza e quello del pagamento, ma la giurisprudenza ha cura di mettere in evidenza come detta liquidazione trovi il suo fondamento in una presunzione dei danni effettivamente subiti dal creditore (Corte di Cassazione, 20 giugno 1928, “Il Foro Italiano”, I (1928), 913; Corte di Cassazione, 11 maggio 1925, “Il Foro Italiano”, Rep. 1925 voce Moneta nelle obblig., n. 18 e 19; Corte di Cassazione, 12 settembre 1925, Ibid. n. 5-6 (...)). Possiamo dunque affermare con sicurezza come alla risarcibilità dei danni dipendenti da oscillazioni nel potere d’acquisto della valuta non osti, fuori dei limiti di applicazione dell’art. 1231, il principio del valor nominale”.

106. “1231. In mancanza di patto speciale, nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, i danni derivanti dal ritardo nell'eseguirle consistono sempre nel pagamento degli interessi legali, salve le regole particolari al commercio, alla fideiussione ed alla società. Questi danni sono dovuti dal giorno della mora, senza che il creditore sia tenuto a giustificare alcuna perdita.”

107. Corte di Cassazione, 30 novembre 1926, “Il Foro Italiano”, Rep.1927, voce Danni inad. Contratt., n.19.

108. Ed in particolare di valuta. Ciò secondo Ascarelli era riconosciuto da precedente giurisprudenza, sia pure se in modo implicito: Corte di Cassazione, 20 ottobre 1925 e 11 giugno 1926, “Il Foro Italiano”, Rep. 1926, voce Moneta nelle obbligaz. nn. 20, 21, 40.

109. Il caso, di fronte al Tribunale di Milano, fu deciso il 14 aprile 1932 tra Ronchetti c. Soc. it. Ossigeni. La sentenza venne pubblicata in “Il Foro Italiano”, I (1933), p. 193, con nota di A. De Stefani, Sulle clausole contrattuali del pagamento in lire-oro, e fu poi successivamente ripubblicata in “Rivista del Diritto Commerciale”, II (1933), p. 190, con nota di T. Ascarelli. Per quanto riguarda la causa in sé convenivano sia Ascarelli che De Stefani che nell’interpretare il contratto il Tribunale, com’era di tutta evidenza, avesse preso per valido e ancor vincolante un indice del cambio della Lira con l’oro pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale non ancora aggiornato alla nuova parità (o non ancora abrogato) per un mero errore di fatto del legislatore.

110. 1821. L'obbligazione risultante da un prestito in danari è sempre della medesima somma numerica espressa nel contratto. Accadendo aumento o diminuzione nelle monete prima che scada il termine del pagamento il debitore deve restituire la somma numerica prestata e non è obbligato a restituire questa somma che nella specie in corso al tempo del pagamento.
1822. La regola contenuta nel precedente articolo non ha luogo, quando siansi somministrate monete d'oro o d'argento, e ne sia stata pattuita la restituzione nella medesima specie e quantità.
Se viene alterato il valore intrìnseco delle monete o queste non si possono ritrovare, o sono messe fuori di corso, si rende l'equivalente al valore intrinseco che le monete avevano al tempo in cui furono mutuate.

111. Scriveva il giurista: “L’articolo 1821 sancisce, riferendosi al mutuo con una disposizione che è però, per unanime consenso, generale, che un debito pecuniario è sempre della somma nominale (numerica) indicata nel contratto, qualunque aumento o diminuzione accada nel valore della moneta. (...) Ma è lecito alle parti sottrarsi all’impero di questa norma determinando la somma dovuta, non solo con riguardo al valore nominale, ma anche considerando altri elementi: per es., la sua corrispondenza ad una determinata quantità di oro fino? (...) Dottrina e giurisprudenza si sono proposti questo problema, che è appunto quello della liceità delle clausole oro, ed hanno risposto affermativamente, ravvisando nell’art. 1821 una norma dispositiva e ritenendo anche che nessuna innovazione al riguardo è stata introdotta col decreto del 1927 (Corte di Cassazione, 8 luglio 1927, “Il Foro Italiano”, I (1928), p. 105; 28 gennaio 1929, in “Giurisprudenza Italiana”, I (1929), p. 4401; 12 giugno 1931, “Il Foro Italiano”, I, (1931), p. 1415). Possono dunque le parti, anziché determinare solamente la somma numerica dovuta, determinare anche la quantità di oro fino corrispondente. (...) Quando questa determinazione abbia luogo, viene meno la regola una pro alia moneta solvi potest. Ciò che importa che quando viene determinata anche la specie monetaria (oro, argento), il creditore ha diritto appunto a quella quantità metallica che corrisponde nel momento della stipulazione alla somma numerica indicata e quindi, in caso di svalutazione della moneta, a una somma numerica proporzionalmente maggiore”.

112. Corte di Cassazione, 18 aprile 1932, “Il Foro Italiano”, I (1933), p. 193.

113. Come si evince dalle massime: Corte di Cassazione, 18 aprile 1932, Basile c. Boscogrande, “Quando in un contratto sia stato pattuito che un determinato pagamento (nella specie, canone enfiteutico) debba essere eseguito in moneta d’oro o di argento il debitore, qualora la moneta pattuita sia stata ritirata dalla circolazione, è tenuto a pagare in applicazione dell’art. 1822 c.c. lo equivalente del valore intrinseco che la moneta pattuita aveva al momento in cui fu stipulato il contratto”, “Il Foro Italiano”, I, 193.; Corte di Cassazione, 20 maggio 1932, Bossi c. Bossi, “È valido non contrastando con le norme di cui nei RR.DD.LL. 21 dicembre 1927 n. 2325 e n. 2326, 26 febbraio 1928 n. 252 e 30 marzo 1928 n. 513, il patto con cui, sciogliendosi una società, uno dei soci si obblighi di corrispondere agli altri un compenso per un determinata somma in lire-oro, da pagarsi in un dato numero di rate annuali, mediante l’equivalente in lire-carta corrispondente al cambio dell’epoca di scadenza di ciascuna rata.”


Nessun commento:

Posta un commento