La Cassazione dà via libera ai processi per usura contro i banchieri
Nota a cura del dr. Gianni Frescura *
Finora sono state decine le pronunce di GIP e GUP che in questi anni hanno archiviato le denunce di usura dei clienti contro le banche perché, a loro avviso, considerato che i responsabili dei tassi e degli oneri a carico dei clienti nelle banche seguivano le “Istruzioni della Banca d’Italia” sul calcolo del TEG dei finanziamenti e nonostante le persone offese o le procure, con perizie più o meno accurate, dimostrassero che c’era stato un supero del tasso soglia, mancava in ogni caso l’elemento psicologico del reato (il dolo) e pertanto sia i banchieri che i bancari non potevano essere colpevoli di questo odioso reato.(1)
La Cassazione, in merito alle denunce di usura bancaria, con la sentenza 8/23 ottobre 2015 n. 42764 che, in questo campo, si può definire rivoluzionaria, ha però precisato che il GUP non può assolvere gli imputati per “mancanza del dolo”, perché esprimerebbe così un giudizio prognostico sull’innocenza dell’imputato, non di sua competenza.
Il GUP, per la suprema Corte quando gli elementi acquisiti in sede istruttoria risultino insufficienti o contradditori, deve emettere il non luogo a procedere solo se i predetti elementi risultino comunque inidonei a sostenere l’accusa; ai sensi dell’art. 425 comma 3 c.p.p. il GUP “deve valutare solo sotto il profilo processuale ... non potendo procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio ... essendogli inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative aperte o comunque ad essere diversamente valutate”.
La sentenza della seconda sezione della Cassazione (pres. Esposito, rel. Gallo) accoglie il ricorso di un imprenditore avverso la sentenza del 23 dicembre 2014 del GUP del Tribunale di Brescia, il quale nell’udienza preliminare, dichiarava il non luogo a procedere, perché “il fatto non costituisce reato” (per mancanza del dolo) nei confronti del direttore di filiale di una banca, pur essendo stato accertato, in sede di indagini preliminari, che in un trimestre del 2011 il supero del tasso soglia dell’usura del fido in conto corrente a causa dell’addebito, oltre che della cms (commisssione massimo scoperto), anche della commissione di disponibilità.
* Direttore del Centro Perizie
Valdagno, Via Dalmazia 39/A
Cell. 3487266542
Note:
1) Tra le sentenze del GUP che assolvono gli imputati per carenza dell’elemento soggettivo del reato ci sono quelle del Tribunale di Ascoli (n. 117 del 9 luglio 2009 e n. 118 del 14 luglio 2009) che hanno provocato le note sentenze della Cassazione sull’inclusione della cms nel calcolo del TEG (caso Orsini).
Sentenza:
http://www.mediaedit.it/2015/11/12/cass-pen-sez-ii-sent-ud-20-10-2015-23-10-2015-n-42764/
Sistema informativo sull'indebitamento delle banche e delle istituzioni finanziarie italiane
mercoledì 23 marzo 2016
Brevissime note sul dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto bancari
Brevissime note sul dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto bancari: rari nantes in gurgite vasto
18 marzo 2016 -
Premessa
L’emistichio dell’Eneide citato nel titolo è molto generoso nell’indicare quanti si sono interessati di stabilire il dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto da parte delle banche. Definire, infatti, ‘rari’ i
giuristi che se ne sono occupati rappresenterebbe un’esagerazione posto
che – a quanto mi consta – solo un giurista lo ha fatto funditus: Dolmetta ([1]). L’analisi dolmettiana dell’individuazione dell’effettivo dies a quo del termine di conservazione degli estratti contocostituisce vero e proprio hapax legomenon giuridico.
La
giurisprudenza – di merito e di legittimità – non aiuta affatto a
risolvere (ma direi, neppure a impostare, quantomeno correttamente) il
problema, anzi essa confonde, alla charlon,
le variegate sfaccettature da cui esso può essere analizzato. Eppure si
tratta di questione la cui corretta soluzione potrebbe avere – a voler
essere prosaici – conseguenze economiche indirette molto rilevanti.
La
questione è ricorrente: un cliente intende far causa alla propria banca
e, quindi, le richiede stragiudizialmente (2) – il più delle volte
citando l’articolo 119, comma 4, del Testo unico
bancario (Tub) – la consegna di copia del contratto originario di conto
corrente (e di apertura di credito) nonché copia di tutti gli estratti
conto, dall’inizio del rapporto sino alla sua estinzione. La banca
risponde usualmente consegnando il contratto originario (anche se
stipulato più di 10 anni prima della richiesta) ma nega la consegna
degli estratti conto precedenti al decennio, osservando che l’articolo
119, comma 4 del Tub impone alla banca di conservare gli estratti conto
solo per 10 anni. Richiesta (del cliente) e risposta (della banca) non
mi sembrano corrette ma prima di offrire la mia proposta di soluzione al
problema è doveroso quantomeno impostarlo a sistema.
I documenti bancari richiedibili: impostazione del problema
Il cliente può aver interesse a richiedere alla banca la consegna di tre categorie distinte di documenti: i contratti, la documentazione inerente a singole operazioni (si pensi alla fotocopia di un assegno incassato o alla copia di una distinta di un versamento o di un bonifico) e, infine, gli estratti conto.
Ogni richiesta di documento mi pare abbia il proprio specifico
correlato positivo che la giustifica; questa è, almeno, la tesi che
intendo qui difendere.
L’obbligo
di consegna del contratto da parte della banca è previsto espressamente
dall’articolo 117, comma 1, Tub («I contratti sono redatti per iscritto
e un esemplare è consegnato ai clienti»). La legge speciale nulla dice
sul termine di conservazione. Per la documentazione inerente a singole
operazioni il riferimento normativo è l’articolo 119, comma 4 Tub («Il
cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra
nell’amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie
spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni,
copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere
negli ultimi dieci anni. Al cliente possono essere addebitati solo i
costi di produzione di tale documentazione»).
Per
gli estratti conto, invece, le norme da prendere in considerazione sono
due: l’articolo 119, comma 2, Tub («Per i rapporti regolati in conto
corrente l’estratto conto è inviato al cliente con periodicità annuale
o, a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o
mensile») e l’articolo 2220 del Codice civile, rubricato Conservazione delle scritture contabili («Le
scritture devono essere conservate per dieci anni dalla data
dell’ultima registrazione»). In questo modo, il problema mi sembra –
almeno – posto.
Il diritto a ottenere copia del contratto
L’articolo
117, comma 1 Tub prevede l’obbligo della banca, nel momento in cui le
parti stipulano per iscritto il contratto, di consegnarne una copia al
cliente. Se il cliente dovesse richiedere una nuova copia alla banca (o
dovesse richiedere alla banca la consegna della proposta dallo stesso
sottoscritta, in quanto in possesso solamente dell’accettazione
sottoscritta dalla controparte), la banca non potrebbe rifiutarsi di
consegnarla trincerandosi dietro al decorso del termine decennale dalla
stipulazione, previsto dall’articolo 119, comma 4, Tub.
Va osservato, infatti, che detta norma si riferisce alla documentazione riguardante singole operazionimentre
il contratto è fenomeno giuridico a monte delle singole operazioni, che
possono essere considerate atti esecutivi del contratto di conto
corrente. Che il termine decennale previsto dall’articolo 119, comma 4
Tub non si applichi al contratto di conto corrente è stato riconosciuto
anche dalla giurisprudenza (Corte d’Appello di Milano, 22 maggio 2012, n. 1796 – Pres. Tarantola; Rel. Raineri) (3), la quale è condivisibile laddove ricorda che: «il
contratto di conto corrente bancario, per sua stessa natura,
costituisce la fonte della disciplina dei rapporti obbligatori fra le
parti e, come tale, non può essere distrutto decorso il termine di dieci
anni dalla sua sottoscrizione, qualora i diritti da esso nascenti non
si siano prescritti». La Corte esclude – e anche qui la condivido –
che l’articolo 119, comma 4, Tub si applichi al contratto. Smetto di
seguirla, invece, quando essa afferma che detta norma si riferirebbe
alle scritture contabili; ma il lettore dovrà avere pazienza ancora un
po’ per capirne le ragioni, perché prima vanno tirate le fila del
discorso sul contratto.
Se
il rapporto di conto corrente non è ancora cessato, non è neppure
iniziato a decorrere il termine prescrizionale del diritto a ottenere
copia del contratto, che quindi la banca non può distruggere. Fra
l’altro, se così facesse (ed è osservazione tanto banale quanto
decisiva), essa si esporrebbe alla certa conclusione della nullità del
contratto stesso in base all’articolo 117, comma 3 Tub e – osserva
perspicuamente Dolmetta – alla violazione della clausola generale
dell’agire bancario della ‘sana e prudente’ gestione (articolo 5 Tub)
(4). Se, invece, il rapporto è concluso è evidente che da lì inizia a
maturare il termine, decorso il quale cessa l’obbligo di conservazione,
che non può di certo essere illimitato nel tempo.
Un
riscontro empirico di quanto sostenuto deriva dall’abitudine (generale)
delle banche di consegnare le copie dei contratti anche se stipulati
oltre dieci anni prima della richiesta e ciò si spiega con il fatto che,
in questo modo, le banche tutelano sé stesse dall’eccezione di nullità del contratto per difetto di forma scritta e, più in generale, dall’eccezione di mancanza di accordo sulle condizioni economiche applicate al rapporto.
Il problema si sposta dall’an al quantum.
Su
quest’ultimo aspetto, la soluzione più scontata mi sembrerebbe essere
quella dell’applicazione del termine ordinario di prescrizione (10 anni)
se è vero, come sottolinea Dolmetta (5), che l’obbligo di conservazione
si debba spalmare – a protezione del cliente, estraneo all’attività
imprenditoriale della banca, e quindi soggetto protetto dall’obbligo di
conservazione in capo alla banca (6) – «lungo l’asse temporale del
potenziale bisogno di uso del documento». In altre parole, la banca deve
conservare l’originale del contratto almeno per dieci anni dalla
chiusura del rapporto ovverosia fintanto che il cliente può esercitare
il proprio diritto redibitorio (articolo 2033 del
Codice civile). Qualche giurista talebano (e io con lui) potrebbe
osservare incidentalmente che, accolto il principio generale (id esttenere
copia del contratto fintantoché il cliente se ne può servire), la
conseguenza potrebbe essere, almeno in ipotesi, l’allungamento del
termine di conservazione a seguito dell’applicazione del principio di
cui all’articolo 2947, comma 3 del
Codice civile (7), che prevede per l’azione di risarcimento del danno
l’applicazione del termine di prescrizione penale eventualmente più
lungo di quello quinquennale civile.
Il diritto a ottenere copia delle singole operazioni
Può
capitare che il cliente abbia necessità di verificare, per esempio, chi
abbia apposto la firma su un assegno depositato anni prima e che quindi
ne debba chiedere copia alla banca. In questo caso, ha tempo per farlo
dieci anni dal giorno del deposito dell’assegno: lo dice il comma 4
dell’articolo 119 Tub laddove cita la copia di documenti inerente a
singole operazioni; siamo nel campo delle Selbstverständlichkeiten(delle cose ovvie) e non voglio quindi sviluppare oltre l’osservazione né parlare con il tono di chi sa e quindi de hoc satis.
Se
l’applicabilità del comma 4 alle singole operazioni bancarie è
indubbia, la cosa che può lasciare perplessi è che tutti – a eccezione
di Dolmetta – e da sempre, abbiano ritenuto naturale estendere
l’applicazione del comma 4 in esame alla documentazione contabile,
ovverosia, per evitare cineserie, agli estratti di conto corrente. Il
successo ha arriso alla teoria, ma è stato più un successo vasto che
profondo in quanto esso si basa su un fenomeno di psittacismo
giuridico. A questo fenomeno pare non sottrarsi nessuno: la
giurisprudenza, la dottrina, l’Arbitro bancario e finanziario (Abf), le
difese delle banche e, cosa strana, le difese della clientela
bancaria. Occorre a questo punto resistere alla forza di gravità del
vecchio modo di pensare e offrirne un nuovo e alternativo.
Il diritto a ottenere copia degli estratti conto
Vorrei
introdurre nel campo visivo del lettore una norma (generale e quindi
meno sexy di quella speciale) contenuta nel nostro Codice civile: il
comma 1 dell’articolo 2220, che impone all’imprenditore di conservare le
scritture contabili per dieci anni dalla data dell’ultima
registrazione. Come ho già detto, i più – forse a causa di una
similitudine di termini decennali – sono disposti a sostenere che
l’articolo 2220, comma 1 del Codice civile – norma generale – imponga a
tutti gli imprenditori lo stesso obbligo specifico che il comma 4
dell’articolo 119 Tub (norma speciale) impone agli istituti di credito.
Questa è la tesi mainstream ma a me verrebbe da dire das ist mir wurst;
sono convinto, infatti, che i modi comuni di pensare diventino
ingannatori quando li si trasformino in qualcosa di così ovvio da non
permettere la riflessione su di essi.
Come
ho già detto, non sono l’unico a pensarlo. Sul punto, Dolmetta, con un
salto gestaltico contenuto – come di sua abitudine – in una nota di un
suo recente lavoro (8), scrive: «il fatto che il dies a quo del decennio muova dal compimento dell’operazione esclude a priori ogni eventuale collegamento tra il detto termine e quello di conservazione delle scritture contabili ex art.
2220 c.c. (posto che quest’ultimo corre […] dal momento in cui il libro
contabile è stato completato)». Il principio sembra accolto
implicitamente anche da Abf, Collegio di Milano, 28 febbraio 2013, n.
1175 (Pres. Gambaro; Est. Rondinone) quando, a fronte di una richiesta
di consegna di estratti conto ultra-decennali da parte di una cliente,
«rileva che, avendosi riguardo a rapporti estinti da più di dieci anni,
ai sensi dell’arti. 2220 c.c. è giustificato che la banca non conservi
più copia degli stessi».
Se
mi facessi bastare questi due “supporti” potrei essere accusato, non
senza qualche ragione, di citare ciò che più mi fa comodo perché devo
porre le mie connessioni con l’arbitraria necessità del procedere
artistico e non come si dovrebbe procedere nell’indagine scientifica.
E’ quindi necessario un ragionamento argomentato.
Alcuni
difensori di banca negano che l’articolo 2220 del Codice civile sia
applicabile alla banca, trattandosi – a dir loro – di norma generale
riferita agli imprenditori. Alexandre Kojéve avrebbe detto che questo è
il tentativo di un prestigiatore di credere alla magia attraverso i
propri trucchi. Basti leggere l’articolo 2195, comma 1, numero 4) del
Codice civile, che stabilisce che sono soggetti all’obbligo di
iscrizione nel registro delle imprese anche gli imprenditori che
esercitano attività bancaria.
Altri
sostengono che gli estratti conto non sarebbero scritture contabili e
questa mi sembra eccezione molto interessante a cui dedicherò attenzione infra. Secondo costoro, le scritture contabilisarebbero solo quelle indicate nel comma 1 dell’articolo 2214 del Codice civile: il libro giornale e illibro inventari.
Tale tesi (almeno così come motivata) dimentica che l’articolo 2214 ha
anche un secondo comma che impone all’imprenditore di tenere (e
l’articolo 2220 di conservare) anche le “altre” scritture
contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni
dell’impresa (9). Gli estratti conto potrebbero quindi essere
considerati scritture contabili “altre” rispetto alla scritture
contabili classiche delle banche e di ciò si potrebbe trovare conferma
nella semplice lettura dell’articolo 50 Tub che, per l’emissione di un
decreto ingiuntivo a favore di un istituto di credito, richiede che
questo depositi un estratto conto certificato conforme alle scritture
contabili da uno dei dirigenti della banca.
Superato
tale ostacolo all’applicabilità dell’articolo 2220 del Codice civile
agli estratti conto, residua quello di stabilire il momento dal quale
inizia a decorrere il termine di 10 anni dopo il quale le banche si
possono legittimamente liberare degli stessi. Qui soccorre l’articolo 12
delle Preleggi che impone un’interpretazione letterale/lessicale della
norma applicata, la quale, nel nostro caso, indica precisamente quale
sia il dies a quo: l’ultima registrazione.
Nel caso di un estratto di conto corrente, l’ultima registrazione è quella con cui si da atto della chiusuradel conto con saldo a zero:
o perché il cliente ha prelevato le somme presenti sul conto o perché
ha pagato il saldo negativo esistente o perché vi è stato il passaggio a
sofferenza della posizione (in quest’ultimo caso il saldo negativo
verrebbe imputato a debito di un altro conto cd. “di sofferenza”).
La conclusione che si trae da tale lettura è che le banche devono conservare gli estratti conto peralmeno 10 anni dalla cessazione del rapporto.
Tale conclusione mi sembra supportata da tre ulteriori considerazioni.
La prima: nell’ipotesi in cui la banca chiudesse il conto con un saldo negativo per
il cliente (con corrispondente credito per la stessa) questa sarebbe
onerata, in base all’articolo 2697 del Codice civile, di produrre in
giudizio tutti gli
estratti conto, dall’inizio del rapporto – anche se antecedente al
decennio – sino alla sua estinzione. Lo sostiene anche l’orientamento
consolidato della Cassazione (da ultimo Cass., 18 settembre 2014, 19696;
Cass., 2 agosto 2013, n. 18541; Cass., 26 gennaio 2011, 1842), secondo
cui «la “ratio” posta a fondamento dell’obbligo di
conservazione delle scritture contabili per un decennio va individuata
nell’esigenza di assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei
all’attività imprenditoriale, rispetto ad un’eventuale posizione
creditoria da essi fatta valere ovvero ad una contestazione sollevata,
circostanza da cui discende che un eventuale inadempimento al riguardo
da parte dell’istituto di credito potrebbe eventualmente rilevare, a
favore della controparte, sotto il profilo della violazione dell’art.
1375 c.c. Il fatto dunque che sia previsto l’obbligo di conservazione
delle dette scritture per un periodo di tempo limitato significa
soltanto che l’imprenditore (nella specie la banca) non può essere
chiamato a rispondere sotto alcun profilo della mancata conservazione
delle dette scritture per un periodo più ampio, ma non può certamente
comportare che l’inesistenza del detto obbligo per il decorso del tempo
possa determinare una condizione di favore rispetto ad una posizione
creditoria prospettata, sollevandolo dall’onere di dare piena
dimostrazione del credito vantato». Se la banca non producesse tutti gli
estratti conto ma solo quelli dell’ultimo decennio e il primo estratto
portasse un saldo negativo per il cliente, l’istituto si vedrebbe
azzerato il saldo (sul punto Cass., 25 novembre 2010, n. 23974: «La
banca non ha provato per le ragioni dianzi esposte che alla data
dell’1.1.1993, cui si riferisce il primo estratto-conto riportato in
giudizio, il credito riportato in detto estratto conto e conclusivo
dell’andamento dei conti per gli anni pregressi fosse quello effettivo
in ragione della più volte citata nullità delle clausole sugli
interessi. Del tutto correttamente pertanto la Corte d’appello ha
azzerato le dette risultanze in quanto non provate e disposto che il
calcolo dei rapporti di dare ed avere venisse calcolato dal CTU a
partire dalla detta data del 1993 partendo da zero»). Ora mi sembra
ovvio che, anche soltanto correre il rischio di non poter provare in
giudizio un proprio credito o di vederlo decurtato rispetto al reale,
non può costituire comportamento bancario sano e prudente, come
richiesto al bonus argentarius dall’articolo
5 Tub. Se quindi la banca, nel proprio interesse, deve conservare gli
estratti conto per dieci anni dalla chiusura del conto, mi sembra che
questo non possa che valere, a maggior ragione tenuto conto della ratio dell’obbligo di conservazione, a tutela della clientela.
La
seconda (intimamente collegata a quanto appena detto): il ragionamento
appena fatto mi sembra possa trovare un supporto positivo nella norma
(articolo 1374 del
Codice civile) secondo cui il contratto obbliga le parti, non solo a
quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne
derivano secondo legge, o in mancanza, secondo gli usi o l’equità. Mi
sembra equo che la banca conservi le scritture contabili per (almeno)
dieci anni dopo la chiusura del rapporto in quanto entro questo lasso
temporale non solo lei può chiedere il pagamento al cliente del saldo ma
anche il cliente può sollevare nei confronti della banca contestazioni e
qualora questi abbia già pagato avanzare anche domande di ripetizione
dell’indebito (articolo 2033 del Codice civile).
La
terza (generalizzazione della seconda): al di là dell’obbligo di legge
(mi riferisco ovviamente all’articolo 2220 del Codice civile e non
all’articolo 119 Tub), il generale principio di buona fede(articolo 1375 del
Codice civile) impone alla banca di conservare le scritture contabili
finché esiste un interesse informativo in capo al cliente della banca e
quindi io dico, almeno per 10 anni, dall’ultima registrazione, id est dalla
chiusura del conto. D’altronde, come ricorda la Cassazione (Cass., 27
settembre 2001, n. 12093), il rapporto banca – cliente «è fondato sul
principio di buona fede, che è clausola generale di interpretazione e di
esecuzione del contratto e fonte di integrazione della regolamentazione
negoziale, ai sensi degli artt. 1366, 1375, 1374 c.c.; sicché, al di là
del disposto dell’art. 119 legge bancaria, il diritto sostanziale di
cui trattasi viene a trovare riscontro nel dovere di solidarietà, ormai
costituzionalizzato (art. 2 Cost.), concorrendo la buona fede alla
“conformazione di tale regolamentazione in senso ampliativo restrittivo,
rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla
legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia
sostanziale”». Il riferimento che la Cassazione fa all’articolo 119 Tub è
da intendersi riferito al secondo comma, posto che la banca, nel
rifiutare la consegna degli estratti conto, sosteneva di averli già
consegnati in base al comma 2 dell’articolo 119 Tub.
E se gli estratti conto non fossero scritture contabili?
In
ultimo vorrei approfondire l’eccezione che si potrebbe sollevare in
ordine alla natura giuridica degli estratti conto: si potrebbe, infatti,
anche non credere che questi siano scritture contabili “altre”,
come ho sopra sostenuto. Così, per esempio, la pensa la Cassazione
(Cass., 21 luglio 2009, n. 16971), che esclude che esse siano scritture
contabili ai sensi degli articoli 2214 – 2217 del Codice civile.
Per
amor di approfondimento scientifico, prendiamo per accettabile tale
conclusione: gli estratti conto non sono scritture contabili e quindi la
banca non è tenuta, in riferimento a essi, a rispettare l’articolo 2220
del Codice civile.
S’impone, a questo punto, la ricostruzione della loro “alternativa” natura.
Il punto d’inizio di questo ragionamento alternativo è, a mio avviso, l’esatta qualificazione del
rapporto giuridico intercorrente tra banca e cliente quando la prima
esegue operazioni bancarie in conto corrente. A questo fine soccorre
l’articolo 1856 del Codice civile, il quale specifica che «La banca risponde secondo le regole del mandato»; insomma la banca è mandataria (aggiungerei: professionale) del cliente/mandante (ex multis: Cass., 7 agosto 2009, n. 18107; Cass., 31 ottobre 2008, n. 26314, Cass., 8 agosto 2003, n. 11961).
Se
la banca è mandataria allora è tenuta al rendiconto nei confronti del
cliente ai sensi dell’articolo 1713 del Codice civile, dovendogli
rendicontare le operazioni, attive e passive, compiute per suo
conto. Sul termine entro cui il cliente può pretendere dalla banca il
rendiconto la legge tace ma è convinzione condivisa da dottrina
(Luminoso) e giurisprudenza (Cass., 16 novembre 1967, n. 2754) che tale
termine sia quello ordinario decennale di cui all’articolo 2946 del
Codice civile. Sul punto non credo che vi possano essere contestazioni e
la pochezza della giurisprudenza rinvenibile ne è indice.
Residuerebbe
da determinare il momento dal quale decorre il termine di prescrizione
del diritto del cliente a ottenere il rendiconto della banca, ma alla
soluzione di tale problema soccorre la giurisprudenza di legittimità, la
quale ribadisce che, poiché il mandato è un rapporto giuridico unitario
anche se articolato in più atti esecutivi (Cass. 9 aprile 1984, n.
2262; Cass., 14 maggio 2005, n. 1590) , ildies a quo è
quello della conclusione del mandato (Cass., 22 agosto 1985, n. 4480),
ovverosia, nel nostro caso, dalla chiusura del conto corrente.
Conclusioni
La
tesi che ho qui esposto mi sembra abbia un merito: quello di trattare
in modo differente situazioni differenti, soprattutto nell’ottica della
banca. La banca è soggetto altamente professionale e quindi è
fisiologico richiederle un comportamento improntato a prudenza anche
nella conservazione della documentazione, che – osservo per inciso – è
quasi sempre dalla stessa interamente prodotta (si pensi ai contratti e
agli estratti conto mentre per la documentazione inerente a singole
operazioni le cose stanno diversamente). Non va neppure ignorato che,
giustamente, i costi della produzione documentale (sia quella originaria
sia quella richiesta nuovamente dal cliente) sono a carico della
clientela e quindi essa è potenzialmente a costo zero per la banca. La
giustificazione del trattamento giuridico diverso suggerito sopra si
fonda anche sulla minore quantità di documentazione contrattuale (si
potrebbe trattare di un solo contratto) e contabile (normalmente 4
estratti conto all’anno) rispetto a quella di singole operazioni, se
solo si pensa che un estratto conto può contenere la registrazione di
decine o centinaia di operazioni nel trimestre. In ultimo – e qui sta
forse la ragione principale per il trattamento differenziato –
l’interprete non può non osservare che se è vero che è dalla “cessazione
del rapporto/compimento dell’atto” che decorre il termine per il
cliente per far valere i propri diritti, allora non si può che giungere
alla conclusione che per i contratti e per gli estratti conto (che
descrivono contabilmente l’andamento del rapporto contrattuale) la
“cessazione del rapporto” coincide con la chiusura del conto corrente
mentre per le singole operazioni il “compimento dell’atto” coincide con
l’esecuzione dell’operazione. E’ probabile che, per il futuro,
l’avanzamento delle tecnologie di conservazione elettronica dei
documenti ma soprattutto la tesi del saldo zero (che costituisce una
specie di pena civile) possa spingere le banche a rivedere il proprio
atteggiamento nei confronti della conservazione degli estratti conto.
NOTE
(1) Dolmetta [A. A.], Sui depositi bancari a vista: tra prescrizione, arricchimento e doveri di avviso (con annessa appendice di decisioni dell’ABF), in IlCaso.it, n. 304/2012; Id., Funzione
di provvista del credito vs funzione di «custodia» nel contratto
bancario di raccolta a vista. Da un’idea di Niccolò Salanitro, in Banca borsa tit. cred., 2013, I, 7 ss; Dolmetta [A.A], Malvagna [U.], Vicinanza della prova in materia di contenzioso bancario. Spunti (I. il saldo zero), in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 15, 2014. In modo più approfondito in Dolmetta [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, 107 – 109.
(2)
La Cassazione ha riconosciuto che il diritto a ottenere copia della
documentazione bancaria è un diritto autonomo e prescinde dall’utilizzo
che il richiedente ne voglia fare. Sul punto mi limito a citare Cass.,
19 ottobre 1999, n. 11733 «Il diritto del cliente di ottenere
dall’istituto bancario la consegna di copia della documentazione
relativa alle operazioni dell’ultimo decennio, previsto dal comma 4
dell’art. 119 del D.lgs. n. 385 del 1993, si configura come un diritto
sostanziale la cui tutela è riconosciuta come situazione giuridica
“finale” e non strumentale, onde per il suo riconoscimento non assume
alcun rilievo l’utilizzazione che il cliente intende fare della
documentazione, una volta ottenuta la e deve escludersi, in particolare,
che tale utilizzazione debba essere necessariamente funzionale
all’esercizio di diritti inerenti il rapporto contrattuale corrente con
l’istituto di credito (ben potendo, ad esempio, essere finalizzata a far
emergere un illecito, anche non civilistico, di un terzo soggetto o di
un dipendente della banca). Nel caso di fallimento del cliente il
suddetto diritto si trasmette al curatore, posto che questi subentra –
ai sensi dell’art. 31 l. fall.- nell’amministrazione del patrimonio del
fallito sotto la direzione del giudice delegato e considerato che detto
diritto è una componente di quel patrimonio. In ragione della natura
“finale” del diritto in questione, l’istituto bancario, richiesto dal
curatore della consegna della copia della documentazione, non può
rifiutarla adducendo l’intenzione del curatore di utilizzare la
documentazione in funzione dell’esercizio di eventuali azioni
revocatorie e nemmeno può pretendere che, a seguito di esercizio da
parte del curatore in sede giudiziale del diritto alla consegna, la
sentenza che riconosca tale diritto escluda quella utilizzazione. (La
S.C. ha anche osservato che lo scioglimento automatico, ex art. 78 l.
fall., del contratto di conto corrente – cui nella specie si correlava
il diritto alla consegna della copia della documentazione – non toglie
che il diritto ex art. 119 citato, configurandosi anche dopo la
cessazione del rapporto, si trasmetta al curatore)». Nel medesimo senso
la giurisprudenza di merito: Tribunale di Torino, 12 aprile 2010 – Est.
Germano, su www.ilcaso.it.
(3) Rinvenibile su www.ilcaso.it.
(4) Dolmetta [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole,
cit., 47. E’ utile riportare per esteso il pensiero dell’Autore «Ora, a
me pare che, a seguire la regola di protezione, l’obbligo di
conservazione delle scritture contabili – che il codice detta nella
prospettiva «interna» dei doveri di impresa – venga sul piano
contrattuale a vestire i panni nobili degli obblighi di protezione,
spalmandosi lungo l’asse temporale del potenziale bisogno di uso del
documento contabile. E nel contempo risponde, altresì, al canone della
sana e prudente gestione di cui all’art. 5 TUB. In effetti, pare agevole
osservare, in proposito, come non possa essere corretto agire d’impresa
quello di disfarsi della documentazione contrattuale relativa ai
contratti e rapporti che tuttora risultano in essere (salvo solo il
fortuito). Chi può pensare sia agire corretto quello di un’impresa che,
concesso un muto trentennale, venga – passato il primo decennio – a
distruggere tutta la documentazione che è tesa ad assicurarle, anche in
via processuale, il rientro del credito?».
(5) Dolmetta [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., 47.
(6)
Sulla funzione protettiva di terzi dell’obbligo di conservazione della
documentazione bancaria si veda Cass., Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1842.
(7) Prescrizione del diritto al risarcimento del danno
Il
diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si
prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.
Per il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il diritto si prescrive in due anni.
In
ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il
reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche
all’azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa
dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio
penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini
indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione
del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile.
(8) Dolmetta [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., nt. 68, 108. Dolmetta è uno dei pochi Autori che dice cose interessanti e innovative nelle note.
(9)
Per esempi di applicazione di tale norma si vedano l’art. 55, n. 3, L.
20 marzo 1913, n. 272, sull’ordinamento delle borse di commercio, l’art.
90, secondo comma, R.D. 4 agosto 1913, n. 1068, di approvazione del
regolamento per l’esecuzione della suddetta legge; la L. 10 giugno 1978,
n. 295 in materia di assicurazione contro i danni e la L. 22 ottobre
1986, n. 742, in materia di assicurazioni private sulla vita.
Articolo estratto da "Rivista delle imprese"
Articolo pubblicato in: Diritto bancario, Diritto civile
domenica 20 marzo 2016
Concorso in riciclaggio per il direttore di banca che autorizza operazioni sospette
Antiriciclaggio
18/03/2016
Concorso in riciclaggio per il direttore di banca che autorizza le operazioni sospette omettendo di segnalarle
http://www.dirittobancario.it/giurisprudenza/antiriciclaggio/concorso-riciclaggio-direttore-banca-che-autorizza-operazioni-sospette-omettendo-di-segnalarle
Cassazione Penale, Sez. II, 14 gennaio 2016, n. 9472
Con sentenza n. 9472 del 14 gennaio 2016, la Corte di Cassazione
Penale ha confermato la condanna di un direttore di banca per concorso
in riciclaggio, concretizzatosi nell’aver autorizzato operazioni
sospette richieste dal cliente, omettendo viceversa di effettuare le
segnalazione all’UIC.
Tali operazioni, sottolinea la Corte, costituivano indici sintomatici del dolo in quanto la situazione fattuale presentava “un significato inequivoco che imponeva all’agente una scelta consapevole: agire segnalando o, al contrario, omettere di intervenire consentendo così il perpetrarsi della condotta criminosa”.
Rispetto all’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio, la Corte ricorda come esso sia integrato dal dolo generico, che richiede la consapevolezza della provenienza delittuosa dell’oggetto del riciclaggio e la volontà di ostacolarne, con una condotta idonea, l’identificazione della provenienza e non richiede alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro. Il reato può essere sorretto anche da un dolo eventuale che si configura in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza del denaro da delitto sicché, egli posto nell’alternativa se compiere o meno una determinata operazione, scelga consapevolmente di compierla.
Ciò detto, nel caso di specie la Corte ha riconosciuto quali indici sintomatici di tale componente volontaristica:
Tali operazioni, sottolinea la Corte, costituivano indici sintomatici del dolo in quanto la situazione fattuale presentava “un significato inequivoco che imponeva all’agente una scelta consapevole: agire segnalando o, al contrario, omettere di intervenire consentendo così il perpetrarsi della condotta criminosa”.
Rispetto all’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio, la Corte ricorda come esso sia integrato dal dolo generico, che richiede la consapevolezza della provenienza delittuosa dell’oggetto del riciclaggio e la volontà di ostacolarne, con una condotta idonea, l’identificazione della provenienza e non richiede alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro. Il reato può essere sorretto anche da un dolo eventuale che si configura in termini di rappresentazione da parte dell’agente della concreta possibilità della provenienza del denaro da delitto sicché, egli posto nell’alternativa se compiere o meno una determinata operazione, scelga consapevolmente di compierla.
Ciò detto, nel caso di specie la Corte ha riconosciuto quali indici sintomatici di tale componente volontaristica:
- l’anomalia delle operazioni connotate “da qualcosa di più del mero sospetto”,
- la posizione di direttore ricoperta dall’agente,
- le competenze in materia bancaria e
- la specificità della normativa violata, diretta ad evitare il riciclaggio di denaro.
giovedì 17 marzo 2016
Responsabilità dei sindaci e falsità in bilancio
Responsabilità degli organi sociali
17/03/2016
Responsabilità dei sindaci e falsità in bilancio
http://www.dirittobancario.it/giurisprudenza/responsabilita-degli-organi-sociali/responsabilita-dei-sindaci-e-falsita-bilancio
Tribunale di Milano, 25 settembre 2015, n. 10759
Marta Colombo, Trainee presso Lombardi Molinari Segni
Con la sentenza in oggetto il Tribunale di Milano si è pronunciato in tema di azioni di responsabilità ex artt. 2393, 2394, 2407 e 2043 del Codice Civile nei confronti di amministratori e sindaci di una società per azioni. In particolare, la responsabilità dei primi è ravvisabile là dove dalla loro condotta sia derivato alla società un danno ingiusto (patrimoniale); la responsabilità dei sindaci, invece, sorge nel momento in cui questi ultimi hanno omesso di adottare qualsiasi iniziativa volta ad impedire il predetto danno e addirittura hanno omesso qualsiasi cenno in proposito nella relazione al bilancio: così contravvenendo ai loro doveri di controllo contabile e di gestione e ed omettendo atti ed iniziative che un adempimento diligente di quei doveri impone e che potrebbe impedire il danno patrimoniale nei confronti della società.
giovedì 3 marzo 2016
Effetti penali dell'occultamento contabile: irrilevante la ricostruzione induttiva del fisco
Giurisprudenza
Occultamento contabile, irrilevante la ricostruzione induttiva del Fisco
L’imprenditore è obbligato a
conservare le scritture: il fatto che l’Amministrazione finanziaria sia
riuscita comunque a determinare il reddito non basta a cancellare il
reato
Ai fini della configurabilità del reato di distruzione o
occultamento delle scritture contabili non è necessario che si verifichi
un’impossibilità assoluta di determinazione del volume di affari e del
reddito d’impresa, essendo sufficiente che la ricostruzione
dell’imponibile evaso avvenga attraverso mezzi diversi dalle scritture
obbligatorie quali, ad esempio, i controlli incrociati.
La ratio della norma, infatti, è quella di responsabilizzare l’imprenditore che è obbligato a conservare i documenti contabili inerenti l’attività d’impresa in modo da consentire in qualsiasi momento all’Amministrazione finanziaria la ricostruzione analitica dell’imponibile fiscale, escluso qualsiasi riferimento a una impossibilità assoluta di procedere a tale ricostruzione.
Questo il principio sancito dalla sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 41830 del 19 ottobre 2015.
La ratio della norma, infatti, è quella di responsabilizzare l’imprenditore che è obbligato a conservare i documenti contabili inerenti l’attività d’impresa in modo da consentire in qualsiasi momento all’Amministrazione finanziaria la ricostruzione analitica dell’imponibile fiscale, escluso qualsiasi riferimento a una impossibilità assoluta di procedere a tale ricostruzione.
Questo il principio sancito dalla sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 41830 del 19 ottobre 2015.
Iscriviti a:
Post (Atom)